Un cibo quotidiano che si trasforma in una bevanda conviviale. Non è un incantesimo, ma il risultato di un’idea visionaria di due piemontesi che a Torino hanno dato vita a un progetto di economia circolare dove dal pane invenduto nasce una birra artigianale, in un incontro insolito tra farina e luppolo, tra forno e fermentazione. A trasformare lo spreco alimentare in opportunità è Biova Project, il cui nome è un omaggio alla classica pagnotta piemontese (la biova, appunto).
Fondata nel 2019 come piccolo progetto di quartiere da Franco Dipietro ed Emanuela Barbano, oggi è un centro di innovazione alimentare, capace di dialogare con catene internazionali – dai supermercati Aldi a Ikea, fino a Carrefour, Trenitalia e Mandarin Oriental – e attivare collaborazioni di recupero con storici brand italiani, come Scotti, Cellini e Riso Gallo.
Tutto è iniziato a Melle, piccolo borgo di 300 anime nelle vallate cuneesi, di fronte a una domanda scomoda: che fine fa tutto quel cibo invisibile che resta fuori dal consumo? Si parla di 931 milioni di tonnellate di cibo ogni anno in Europa, di cui 158 milioni solo tra pane e prodotti secchi. In Italia, 13mila quintali di pane finiscono quotidianamente nella spazzatura. Da questi numeri, la volontà di recuperare pagnotte, rosette e sfilatini e trasformare in prodotto nuovo ciò che la filiera considera «in eccesso». Il progetto funziona come un cerchio perfetto di sinergie: panetterie e supermercati donano il loro pane invenduto, Biova Project lo raccoglie e lo porta ai birrifici partner, che lo trasformano in birra. Poi, quella stessa birra ritorna sugli scaffali proprio dei luoghi da cui il pane era partito. Un ciclo virtuoso dove nulla si perde, tutto si rigenera.
Grazie a tecnologie proprietarie e ricette originali, il pane recuperato sostituisce fino al 30% del malto d’orzo normalmente utilizzato, riducendo il consumo di materie prime e restituendo alla birra un gusto leggermente sapido, autentico e mai uguale a sé stesso. Perché ogni pane racconta la sua storia, il suo territorio, la sua tradizione. Accanto alla Biova Classica, la prima nata, oggi ci sono la Biova Leggera, a bassa gradazione, ottenuta da chicchi di riso Carnaroli recuperati da importanti player del mercato italiano, e la Biova Integrale, realizzata con gli sfridi di pasta, cioè quei frammenti che si spezzano durante la produzione dei pastifici italiani, oggi servita perfino a bordo dei Frecciarossa.
«Quest’anno abbiamo recuperato circa 16 tonnellate di pane e altrettante di pasta e riso», racconta a Moneta Franco Dipietro, fondatore e amministratore delegato di Biova Project, «è una goccia nell’oceano rispetto allo spreco, ma il nostro obiettivo è ridare vita e valore a sottoprodotti e invenduti della filiera agroalimentare».
Non solo pane, pasta e riso. Biova Project è un progetto aperto, in costante evoluzione, disposto a lavorare con partner di ogni dimensione, dal piccolo forno al grande gruppo industriale. Oggi sperimenta anche con scarti di frutta e verdura, trasformandoli in snack e bevande analcoliche. Tra le collaborazioni più curiose, la Biova Lemon, realizzata con limoni Igp «imperfetti» recuperati grazie a Babaco Market, e una birra al caffè nata dal recupero di capsule non conformi in partnership con Cellini. Un caleidoscopio di sapori che dimostra come anche lo scarto possa farsi valore, gusto e racconto.
Oggi Biova Project è molto più di una startup di economia circolare: è una rete di valore, un laboratorio di idee, che guarda al futuro con solide fondamenta economiche. Al 30 settembre 2025, ha registrato un fatturato cumulato di 393mila euro, in crescita del 76% rispetto al terzo trimestre del 2024. Un trend di crescita che consolida la posizione dell’azienda in vista di una nuova raccolta di capitale da 2,5 milioni di euro, rivolta a investitori privati, venture capitalist e industriali e destinata a espandere sia la rete vendita in Italia sia ad aprire nuovi mercati, in particolare Olanda e due Paesi del Sud America.
Un percorso che parte da lontano, se si pensa che all’inizio dell’attività a un collaboratore era capitato anche di tritare 150 chili di pane con un macinino da cucina, un lavoro che manco un monaco buddista. Oggi, quell’impresa quasi artigianale impiega quattro dipendenti e conta una serie di collaboratori ed è diventata un esempio di economia circolare che funziona: «Noi non ci riempiamo la bocca di parole come green, eco o bio – precisa Dipietro – Preferiamo riempirla di qualcosa che sta in piedi anche sul piano economico. La sostenibilità, per noi, è ambientale, ma anche finanziaria, sociale e logistica». Così, tra una briciola e una bolla, Biova Project continua a trasformare lo spreco in valore condiviso. Un brindisi che sa di futuro. Dissetante e circolare.
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