L’oro non splendeva così tanto in un singolo anno dal lontano 1979, quando i venti di tempesta sui mercati erano plurimi tra shock petrolifero, tensioni geopolitiche, inflazione al 13% negli Usa e dollaro a picco. A poco più di un mese allo scoccare della fine dell’anno, il metallo giallo segna un lusinghiero saldo positivo per oltre il 55%, facendo nettamente meglio di tutte le altre principali classi d’investimento, superando di quattro volte le performance di Wall Street e detronizzando il tanto chiacchierato Bitcoin, spesso definito come la versione digitale dei lingotti. Nell’ultimo mese e mezzo è emersa con forza la distanza tra questi due asset agli occhi degli investitori: l’oro si è preso una semplice pausa dal suo rally forsennato, mentre la criptovaluta è crollata del 30% confermando il suo lato oscuro rappresentato da un’eccessiva volatilità.

Se a ottobre l’ottimismo sull’oro aveva raggiunto il suo apice, con i grandi gestori interpellati da Bank of America che per la prima volta indicavano l’acquisto di oro come prima scelta rispetto al “buy” sulle Magnifiche Sette di Wall Street, l’ultimo mese ha visto l’umore degli investitori normalizzarsi, fermo restando il persistere di forti elementi di incertezza che spingono verso l’oro, dalle preoccupazioni per l’occupazione statunitense al forte vento contrario derivante dall’impennata del debito statunitense.
Di fondo rimane la spinta del calo dei rendimenti dei Treasury e la debolezza del dollaro, due elementi storicamente positivi per le quotazioni. I rendimenti più bassi rendono infatti i Treasury un rifugio meno attraente rispetto all’oro che, essendo quotato in dollari Usa, diventa più accessibile agli acquirenti esteri, comprese le banche centrali, in caso di svalutazione del biglietto verde.
Fattori strutturali
Rispetto al 1979, che segnò l’apice della corsa all’oro prima dell’avvento di Paul Volcker alla Federal Reserve con la sua politica iper-restrittiva volta a sconfiggere l’inflazione, ad oggi gli esperti di mercato non intravedono all’orizzonte sentori di inversione dei fattori strutturali a sostegno della domanda del metallo prezioso, a partire da quella in arrivo dalle Banche centrali, che nel terzo trimestre hanno rafforzato ulteriormente le loro riserve con acquisti netti per circa 337 tonnellate. «Probabilmente gli acquisti delle banche centrali sono proseguiti a novembre», è l’indicazione di Goldman Sachs che vede l’oro arrampicarsi fino a 4.900 dollari l’oncia nel 2026 e con l’accumulo da parte delle banche centrali visto come una tendenza pluriennale al fine di diversificare le riserve per coprirsi dai rischi geopolitici e finanziari. Jp Morgan vede l’oro varcare i 5.000 dollari, spingendosi fino a quota 5.200-5.300, ossia il 30% circa sopra i livelli attuali. Anche Wells Fargo ritiene che il mercato toro del lingotto sia tutt’altro che finito e indica un obiettivo in area 4.500–4.700 dollari da qui a 12 mesi in quanto rimane la principale copertura contro l’aumento del debito statunitense, l’inflazione e le turbolenze geopolitiche. Continua, intanto, a diventare sempre più corposa anche la domanda di oro fisico, pari a 315,5 tonnellate nel terzo trimestre 2025 (+17% annuo) con l’investimento retail in lingotti e monete guidato principalmente dalla domanda asiatica, in particolare in India e Cina.
I rischi
Quali invece i rischi che potrebbero sfidare la corsa rialzista? Uno su tutti è l’aumento dei tassi di interesse reali che renderebbe i bond più attraenti, riducendo la domanda d’oro; così come un improvviso attenuarsi delle tensioni globali potrebbe indurre gli investitori a sentire meno bisogno di una coperta di Linus dorata.
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