C’è un’immagine che negli ultimi giorni circola nei corridoi di Palazzo Chigi e del Parlamento: quella di un’Italia che riporta alla luce il proprio oro, non metaforicamente ma nel senso più concreto possibile. È un’immagine di ordine e responsabilità, quasi che il Paese riscoprisse un legame antico con il metallo prezioso che per generazioni ha rappresentato stabilità, prudenza, senso della continuità. In questo clima prende forma la misura di rivalutazione dell’oro da investimento, inserita come emendamento nella manovra e ormai avviata verso l’esame parlamentare. Al momento di andare in stampa non si conosce ancora l’esito del vertice tra i leader della maggioranza sulle proposte di modifica, ma la tassazione agevolata dell’oro è già entrata nel gruppo dei segnalati, prova che la solidità tecnica non è in discussione. La proposta nasce dalla consapevolezza del problema, soprattutto dopo il cambio di regime introdotto nel 2024, quando è stata abolita la presunzione di plusvalenza del 25% e si è stabilito che, senza documenti, l’intero ricavato dalla vendita debba essere tassato al 26 per cento. Un irrigidimento che, nelle intenzioni dei partiti di governo, deve ora essere corretto con realismo e lungimiranza. Anche perché – ça va sans dire – si tratta di una imposizione agevolata che incontrerebbe il favore degli italiani che vedono nell’oro il bene rifugio subottimale, immediatamente dopo l’amore innato per la prima casa.

Tassazione agevolata
La proposta, firmata da Maurizio Casasco per Forza Italia e Giulio Centemero per la Lega, introduce un percorso chiaro e conveniente per chi voglia regolarizzare lingotti, monete o placchette privi di documentazione. L’aliquota del 12,5%, molto più mite dell’attuale 26%, viene giustificata con l’obiettivo di «facilitare l’emersione e la circolazione dell’oro fisico da investimento» e di correggere una distorsione che penalizza chi ha ricevuto oro in dono o in eredità senza alcun intento speculativo. La finestra fissata fino al 30 giugno 2026 permette di riallineare il valore fiscale dell’oro posseduto al primo gennaio 2026 e consente di versare l’imposta anche in tre rate. La misura potrebbe portare, con un’adesione prudenziale del 10%, fino a due miliardi di gettito, risorse utili per le modifiche alla manovra, dalla revisione degli affitti brevi all’abolizione dell’imposta sui dividendi societari, come richiesto da Forza Italia. Su questo punto Casasco è chiaro: per gli azzurri «l’obiettivo è eliminare l’aumento della tassazione sui dividendi» e la rivalutazione dell’oro è una copertura considerata solida, purché non si trovino alternative migliori. Lega e Fratelli d’Italia sostengono la misura, ma senza rigidità: nessuno nella maggioranza intende “impiccarsi” a questo emendamento, consapevoli che l’obiettivo è portare a casa l’abbassamento delle tasse. A frenare davvero è la Ragioneria dello Stato, che considera la misura un costo potenziale sulla base dell’assunto che, in condizioni normali, l’Agenzia delle Entrate sarebbe in grado di individuare l’oro non dichiarato e tassarlo integralmente. Ecco perché è probabile che, alla fine delle interlocuzioni, l’emendamento venga modificato facendo coincidere emersione e vendita dell’oro restringendo l’apertura della “finestra”.
L’eredità di Vincenzo Visco
È un’impostazione che molti leggono come l’eredità culturale dell’epoca di Vincenzo Visco, quando l’allargamento della base imponibile era un dogma e il contribuente una miniera da scandagliare fino all’ultimo grammo. Una visione che mal si concilia con la filosofia dell’attuale governo, orientata a favorire l’emersione spontanea invece di esasperare il contribuente. C’è anche un aspetto molto concreto: chi possiede un lingottino o poche monete può tranquillamente attraversare il confine e cambiarle in Svizzera, senza lasciare tracce. Per valori inferiori ai 10mila euro non scatta alcun obbligo dichiarativo e il metallo giallo rientra in Italia trasformato in denaro contante senza che il fisco possa intervenire. È evidente che, mantenendo regole punitive come quelle introdotte nel 2024, il rischio sia quello di incentivare l’opzione svizzera, soprattutto per chi vive al Nord. Il governo, invece, punta a riportare nel perimetro nazionale un patrimonio stimato tra le 4.500 e le 5.000 tonnellate, di cui fino a 1.500 tonnellate sono oro da investimento per oltre 160 miliardi di valore. Offrire una via semplice e conveniente per regolarizzare questo tesoro appare molto più efficace di una caccia all’evasione. La storia normativa, infatti, dimostra che ogni volta che è stata prevista una rivalutazione volontaria – dai terreni alle partecipazioni, fino alle cripto-attività – l’adesione è stata elevata, il gettito immediato e la compliance fiscale rafforzata. La manovra si muove su un sentiero già battuto, ma lo fa con un equilibrio che tiene insieme rigore e buon senso.
I lingotti di Via Nazionale
Il tema dell’oro nella manovra non si esaurisce però nella rivalutazione del patrimonio privato. Fratelli d’Italia ha infatti depositato un emendamento, firmato dal capogruppo al Senato Lucio Malan, che riafferma un principio caro a Giorgia Meloni: «Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano». Non è una novità assoluta: la premier sostiene questo concetto almeno dal 2014, quando definì l’oro «l’unica garanzia e ricchezza relativa rimasta agli italiani». Oggi quelle riserve ammontano a 2.452 tonnellate, per un valore vicino ai 300 miliardi, e rappresentano uno dei patrimoni strategici più rilevanti del Paese. Non possono essere smobilitate liberamente e nessuno nella maggioranza intende farlo, ma ribadire la proprietà pubblica significa rafforzare un pilastro identitario e istituzionale. Obiettivi: riportare ordine nella tassazione dell’oro privato, ristabilire con chiarezza la titolarità dell’oro nazionale, ridurre l’incertezza e rafforzare la fiducia. In un Paese che ha sempre vissuto il metallo giallo come una riserva di sicurezza, l’esecutivo lo trasforma in un alleato della stabilità economica e politica.
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