L’Italia è riconosciuta nel mondo per creatività e ingegno, qualità che spesso però non trovano un sostegno adeguato quando si tratta di trasformare le idee in imprese. Negli ultimi anni l’ecosistema startup sta crescendo, ma continua a scontare una carenza strutturale di investitori privati, i cosiddetti business angel. Secondo il Politecnico di Torino, nel Paese se ne contano poco più di 1.600, un numero ancora lontano dagli standard dei principali mercati europei. E la distanza emerge chiaramente dai dati: nel 2023, in Europa, EBAN ha registrato 4.789 round sostenuti da business angel in 38 Paesi, mentre in Italia solo il 10% dei round tra il 2018 e il 2022 ha visto la partecipazione di investitori informali – un valore inferiore del 40% rispetto alla media europea. Un ritardo non solo quantitativo ma anche culturale, che rallenta la crescita delle imprese innovative. Di come colmare questo gap e di quali opportunità si aprono per il nostro Paese parliamo con Manuel Urzì, COO e head of growth di Startup Geeks.
Perché in Italia ci sono ancora meno business angel rispetto ad altri Paesi europei?
Il divario tra l’Italia e i principali mercati europei in termini di business angel è il risultato di diversi fattori storici e culturali. In Italia, la cultura dell’investimento informale nelle startup è nata più tardi e con minore intensità rispetto, ad esempio, alla Germania o alla Francia, dove già da anni si sono consolidate comunità di investitori strutturate, ben organizzate in network e associazioni che favoriscono la sindacazione del capitale (cioè l’investimento condiviso tra più soggetti) e lo scambio di competenze.
Questo si riflette anche nei numeri: solo il 10% dei round early stage, ossia i primi round di investimento nelle fasi iniziali di vita di una startup, in Italia coinvolge business angel organizzati, contro una media europea quattro volte superiore. Inoltre, meno di quattro startup su dieci che chiudono un round pre-seed, ovvero la fase ancora precedente al seed in cui si finanzia l’idea o il prototipo, riescono ad accedere alla fase successiva. In Francia e Germania, invece, la percentuale è nettamente più alta. Un altro elemento rilevante è la minore diffusione di percorsi di formazione specialistica e di occasioni di networking, ovvero di incontro e scambio tra investitori e founder, che ha limitato la crescita qualitativa della comunità. Tuttavia, oggi stiamo assistendo a una trasformazione importante: sempre più business angel italiani partecipano a programmi formativi dedicati e offrono attivamente competenze, mentorship (cioè accompagnamento operativo e strategico) e accesso al proprio network di contatti. Questo cambiamento culturale è il motore principale per ridurre il divario che ancora esiste.
Che impatto potrà avere il fondo europeo “Scaleup Europe” sull’ecosistema italiano?
Il fondo Scaleup Europe rappresenta una svolta per l’ecosistema italiano, soprattutto per le startup ad alta tecnologia, dove raccogliere capitali è particolarmente difficile. Queste realtà hanno bisogno di investimenti consistenti e con orizzonti temporali più lunghi per superare due fasi molto delicate: lo sviluppo del prodotto e il lancio commerciale. In Italia, questi momenti sono spesso definiti “valli della morte” perché mancano risorse disponibili per sostenerli con continuità. L’arrivo di un fondo europeo di grandi dimensioni, pensato proprio per sostenere queste imprese, può offrire la stabilità e la fiducia necessarie per crescere restando in Italia, evitando di spostare la sede all’estero per cercare finanziamenti.
Mi aspetto quindi un impatto significativo, a patto che venga accompagnato da un cambiamento nella percezione del rischio. Il fondo è nato per sostenere la crescita di startup europee in settori tecnologici strategici, con capitali pazienti e tempi di investimento più lunghi. Ma c’è di più: questo fondo può avere un effetto positivo anche sulle fasi iniziali. Se diventa più facile accedere ai capitali nelle fasi avanzate, anche chi investe all’inizio sarà più motivato. Si crea così un circolo virtuoso: più risorse disponibili per le startup già in crescita generano maggiore fiducia e più capitali anche per quelle che stanno nascendo, stimolando la nascita di nuovi fondi dedicati.
E non si tratta solo di denaro. Lo sviluppo di un percorso completo che accompagni le startup dalla sperimentazione iniziale alla crescita commerciale rafforza tutta la filiera dell’innovazione. Per molte imprese italiane ad alta tecnologia, questo può fare la differenza tra rimanere ferme o diventare protagoniste a livello internazionale.
Perché un investitore dovrebbe guardare anche al mondo delle startup?
Per diversificare il proprio portafoglio, accedere a opportunità ad alto potenziale e contribuire alla crescita dell’economia reale. Le startup rappresentano un asset decorrelato dai mercati finanziari tradizionali e, pur essendo ad alto rischio, offrono anche ritorni potenzialmente elevati. Ma non è solo una questione economica: investire in startup significa sostenere nuove imprese, giovani talenti e idee che possono avere un impatto sociale e occupazionale significativo.
Le startup supportate da business angel attivi nella mentorship e nel supporto operativo hanno registrato un incremento del fatturato 5,1 volte superiore rispetto a quelle sostenute da capitale passivo, e una crescita occupazionale del 20% in più. Si investe in economia reale, contribuendo ad aumentare la produttività e a creare forza lavoro qualificata. È un modo concreto per sostenere l’innovazione e il rilancio dei territori, trasformando capitale privato in impatto sistemico. Si investe per generare ritorni, ma anche per costruire futuro: un futuro fatto di innovazione sostenibile, digitalizzazione diffusa e crescita inclusiva dell’economia reale.
Il tasso di mortalità delle startup è alto: come ridurre il rischio prima di investire?
Il rischio fa parte del gioco, ma si può gestire con metodo. Il primo fattore da considerare è il bisogno di mercato: molte startup falliscono perché propongono soluzioni a problemi che non sono davvero sentiti o urgenti. Serve partire da un’esigenza concreta e diffusa, ben percepita dal pubblico a cui ci si rivolge.
Subito dopo viene il team: non basta che sia tecnicamente competente, deve anche avere la capacità di guidare il progetto, trasmettere fiducia, raccogliere capitali e affrontare momenti critici. Un team efficace ha visione, determinazione e capacità di adattamento.
È poi fondamentale che il modello di business sia solido e ben pensato. Deve poter funzionare su scala, essere ripetibile nel tempo e sostenibile. Si può capire se è promettente osservando, nelle fasi iniziali, come il team testa l’interesse del mercato e raccoglie i primi segnali, ad esempio quanto gli utenti tornano, se consigliano il prodotto, se sono disposti a pagare.
Anche la dimensione del mercato è importante: un’idea ottima in un mercato troppo piccolo può avere poco margine di crescita. Ma se non c’è bisogno reale o un team adatto, nemmeno il mercato migliore può bastare.
Infine, non va sottovalutata la questione finanziaria. La causa più comune di fallimento per le startup è la mancanza di risorse: secondo CB Insights (2021), il 38% chiude perché finisce i soldi o non riesce a raccoglierne di nuovi. Qui l’investitore può fare la differenza non solo investendo, ma anche aiutando la startup a trovare altri sostenitori, costruendo fiducia intorno al progetto.
Chi riesce a leggere bene questi elementi e supportare in modo attivo i founder può davvero aumentare le probabilità di successo.
Come può investire oggi un business angel, anche se non è un professionista?
Oggi è possibile investire in startup anche senza essere professionisti del settore o disporre di grandi capitali. Esistono soluzioni semplici, graduali e guidate per chi vuole iniziare. Una possibilità è entrare in un “club deal”, cioè gruppi di investitori che mettono insieme le risorse per finanziare una startup. Questo permette di ridurre l’investimento iniziale e di condividere competenze ed esperienze con altri.
Un’altra strada sono le piattaforme di “equity crowdfunding”, che consentono di investire in startup selezionate anche con poche migliaia di euro. Queste piattaforme raccolgono i fondi tramite veicoli condivisi (chiamati SPV), che semplificano la gestione per chi investe.
Chi preferisce un approccio più indiretto e professionale può affidarsi a fondi specializzati in startup early-stage: questi fondi raccolgono capitali da più investitori e li gestiscono in modo attivo, diversificando il rischio su più progetti.
A fianco di questi strumenti stanno crescendo percorsi formativi pratici che aiutano anche i meno esperti a comprendere i rischi, costruire la propria strategia e valutare meglio le opportunità. Workshop, simulazioni e mentoring sono ormai parte integrante del percorso di chi vuole diventare un business angel informato. Per rendere questo accesso più stabile e diffuso, è importante rafforzare la formazione e reintrodurre strumenti come l’incentivo fiscale (detrazione) al 30 o al 65% per chi investe in startup innovative. Questo tipo di misure può allargare la base degli investitori e dare nuova linfa all’ecosistema dell’innovazione.
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