C’è un momento, il 2 aprile scorso, in cui il mondo economico ha fatto quello che a volte sa fare meglio: spaventarsi da solo. Quel giorno Donald Trump ha gettato nel caos i dazi globali con il consueto stile bellicoso e, nel giro di poche ore, la parola dominante è diventata una sola: catastrofe. Per settimane, anzi per mesi, non si è parlato d’altro. Secondo le previsioni più fosche, il commercio mondiale avrebbe subito un colpo letale, i Pil sarebbero deragliati, l’inflazione avrebbe ripreso a galoppare come negli anni Settanta. Le Borse hanno reagito di conseguenza: nei primi giorni Wall Street ha bruciato oltre 2.000 miliardi di dollari di capitalizzazione, l’Europa ha perso più di 400 miliardi in una manciata di sedute. Fine del mondo, o quasi. E Moneta – tanto vale precisarlo subito – ha partecipato attivamente al coro sintonizzato sui paradigmi tradizionali dell’economia.
Poi, come spesso accade, la realtà ha iniziato a fare il suo mestiere: smussare gli eccessi. A distanza di mesi, l’economia americana non è diventata più prospera, come avrebbe voluto Trump. Tutt’altro. Secondo stime della Federal Reserve, i dazi hanno aggiunto tra lo 0,3 e lo 0,5% all’inflazione core nel corso dell’anno, complicando il lavoro della Banca centrale e comprimendo i consumi di alcune fasce di reddito. E tuttavia, non si è visto il collasso annunciato dalle Cassandre. La crescita statunitense ha rallentato, ma è rimasta positiva. E soprattutto, fuori dagli Stati Uniti il terremoto non si è verificato. Anzi, i dati sul commercio globale raccontano una storia molto meno drammatica di quella prevista in primavera. Il volume degli scambi mondiali, secondo le principali istituzioni internazionali, ha subito una flessione contenuta, nell’ordine di pochi decimali di punto, ben lontana dalle contrazioni a due cifre evocate nei titoli più urlati ad aprile. I Pil europei non hanno cambiato rotta in modo significativo, quelli asiatici hanno continuato a crescere, magari un po’ meno velocemente, ma senza inversioni traumatiche. E l’inflazione, pur restando un problema, non è esplosa: nella maggior parte delle economie avanzate è rimasta entro un range gestibile, lontano dagli scenari fuori controllo evocati all’indomani dell’annuncio.
A questo punto la domanda diventa inevitabile: com’è possibile che una guerra commerciale annunciata come epocale si sia trasformata in una notizia di seconda fascia nel giro di pochi mesi? La risposta non sta nel fatto che i dazi non contino, ma nel contesto in cui sono piombati. L’economia mondiale del 2025 è un organismo che ha già incassato colpi ben più violenti. Il Covid ha provocato cadute del Pil globale superiori al 3%, ha spezzato catene di fornitura e bloccato interi settori produttivi. Le guerre hanno rimesso in discussione energia, logistica e sicurezza. Le tensioni geopolitiche sono diventate strutturali. In questo scenario, un aumento dei dazi, per quanto politicamente dirompente, non è più uno shock “puro”, ma uno dei tanti fattori di disturbo.
C’è poi un elemento che molti commentatori probabilmente sottovalutano: imprese e mercati hanno imparato ad adattarsi. Le aziende esportatrici hanno diversificato latitudini e fornitori, le multinazionali hanno riorganizzato le catene del valore, spesso accettando costi più alti pur di ridurre i rischi. È un mondo meno efficiente, ma più elastico. E l’elasticità, in tempi di instabilità permanente, vale più della perfezione teorica.
A fare da cuscinetto, come sempre, è stata la finanza. Negli ultimi dieci anni la massa finanziaria globale è cresciuta a ritmi esponenziali, creando un sistema capace di assorbire shock che un’economia “reale” più asciutta non potrebbe reggere. Mercati iper-liquidi, strumenti derivati, criptovalute, stablecoin: un ecosistema pieno di contraddizioni, ma anche di ammortizzatori. Quando i dazi hanno spaventato, il capitale si è spostato, ha ribilanciato, ha diluito l’impatto nel tempo. Non senza effetti collaterali, ma con una capacità di assorbimento che ha reso lo shock meno visibile.
Ed è forse questo il punto più scomodo. Il tema dei dazi è scomparso dai giornali non perché sia risolto, ma perché non “fa più paura” nel modo tradizionale. Non produce un crollo immediato, non offre immagini spettacolari, non consente titoli apocalittici sostenuti dai dati. Gli effetti, se arriveranno, saranno lenti, frammentati, difficili da attribuire. Molto meno appetibili per il ciclo dell’informazione, molto più insidiosi per l’economia reale.
In definitiva, la storia dei dazi di Trump è l’ennesima prova di un mondo che ha imparato a convivere con l’instabilità come stato permanente. Una resilienza che rassicura nel breve periodo, ma che rischia di anestetizzare il dibattito pubblico. Perché se tutto sembra reggere, non significa che tutto stia funzionando. E quando gli effetti emergono a bassa intensità ma in modo persistente, il conto arriva lo stesso. Solo che, a quel punto, non fa più notizia.
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