«Netflix non ha speranze». Jim Keyes non usò giri di parole nel 2008 per liquidare l’allora giovane realtà fondata da Reed Hasting. Keynes era alla guida di Blockbuster, gigante del noleggio delle videocassette e aveva rispedito al mittente il tentativo di Netflix di farsi acquisire per la modica cifra di 50 milioni di dollari. A 17 anni di distanza i rimpianti abbondano. Blockbuster si è schiantata fallendo nel giro di pochi anni (2013), mentre Netflix ora vale 10mila volte di più, ossia 500 miliardi di dollari. Proprio il 2008 segnò la prima grande svolta per Netflix che passò dalla spedizione di dvd via posta ordinaria all’avvio dello streaming on demand per poi avventurarsi nel business delle produzioni esclusive per il piccolo schermo. Il resto della storia lo conosciamo: oggi la regina dello streaming vanta 302 milioni di abbonamenti in giro per il mondo, ricavi per oltre 39 miliardi di dollari nel 2024 (quest’anno sono attesi in area 44 miliardi) e tassi di crescita vigorosi (+25% i ricavi nel primo trimestre 2025) sotto la spinta dell’aumento dei prezzi in mercati chiave quali gli Stati Uniti. E per i prossimi trimestri i catalyst non mancheranno con le nuove stagioni di Squid Game, Stranger Things e Mercoledì. Intanto, a Wall Street il titolo Netflix è fresco di massimi storici a 1.164 dollari, livelli raddoppiati rispetto a un anno fa e con un esponenziale +1.290% negli ultimi 10 anni. Come già successo in epoca Covid, il rallentamento economico dovuto alle tensioni commerciali ha acceso i riflettori su Netflix, percepita dagli investitori come un argine difensivo in caso di debolezza congiunturale.
Non solo serie tv
L’obiettivo dichiarato di Netflix è raddoppiare i ricavi entro il 2030, ma per farlo dovrà rintuzzare la crescente concorrenza nel settore dello streaming da parte di Apple, Disney+ e Amazon Prime Video. «In un mercato altamente competitivo vince chi riesce a controllare scala (più utenti significano costi unitari più bassi, maggiore potere negoziale e vantaggio sui concorrenti), monetizzazione efficiente e controllo sui costi», rimarca Filippo Diodovich, senior market strategist di IG Italia, che per la restante parte dell’anno mantiene una preferenza Netflix che è passata dal focus sulla crescita degli abbonati alla ricerca di migliorare la redditività.
A ben guardare anche Amazon, identificata dagli investitori per la sua leadership nell’e-commerce, ha in Prime Video e Amazon Music non solo dei semplici elementi di diversificazione delle entrate. Per il gruppo di Seattle si tratta di asset strategici in grado di generare valore sia attraverso i ricavi da abbonamenti, sia come piattaforme pubblicitarie di nuova generazione. Da un lato, i ricavi da sottoscrizione per Prime Video, Amazon Music e Kindle Unlimited superano i 44 miliardi. «Una componente ricorrente, fidelizzante, che rappresenta una quota stabile tra il 6% e l’8% del fatturato totale e rafforza il valore percepito dell’intero ecosistema Prime», spiega Gabriel Debach, analista di eToro. Dall’altro lato, gli stessi contenuti alimentano la macchina pubblicitaria con Amazon Ads che ha generato 13,9 miliardi (+18%) nell’ultimo trimestre e una parte rilevante di questa crescita arriva proprio da Prime Video, Amazon Music, Twitch e il database cinematografico IMDb, dei «canali che raggiungono ogni mese 275 milioni di utenti solo negli Usa, offrendo agli inserzionisti uno spazio ad alta qualità, profilato e profondamente integrato con l’e-commerce», asserisce Debach ricordando come alle valutazioni attuali (circa 30 volte gli utili futuri) il titolo Amazon scambia a multipli storicamente compressi più simili a un retailer tradizionale che a una piattaforma tech.
Il freemium che paga
Come dimostrato da Netflix, i consumatori sono disposti ad accettare la pubblicità al giusto prezzo. Nel caso di Spotify, leader nello streaming musicale on demand, quel prezzo è gratuito. Il modello freemium portato avanti dall’azienda svedese poggia, infatti, sulla fidelizzazione dei clienti con il piano gratuito che permette di convertire successivamente molti clienti alla versione a pagamento e allo stesso tempo garantisce cospicue entrate pubblicitarie (1,17 miliardi di euro nel 2024). Gli ultimi riscontri trimestrali vedono gli utenti mensili attivi a quota 678 milioni, di cui 268 milioni sono abbonati Premium (+12% nell’ultimo anno). Numeri che hanno permesso a Spotify di triplicare l’utile operativo a 509 milioni nel primo trimestre dell’anno con l’Arpu (ricavi medio per cliente Premium) al nuovo picco storico di 4,73 euro.
Per Spotifly, sbarcata in Borsa nel 2018, la crescita non è stata così verticale come Netflix, ma nell’ultimo anno il titolo ha più che raddoppiato il proprio valore. L’ambizione di lungo periodo è arrivare un miliardo di abbonati poggiando sui piani di espansione nei mercati emergenti (con tariffe locali più accessibili) a cui si abbina l’accelerazione della diversificazione dell’offerta con podcast, audiolibri e video. «L’espansione nei podcast e nella pubblicità – spiega Diodovich – punta a migliorare i margini visto che il modello freemium garantisce ampia penetrazione, ma soffre per la bassa marginalità dovuta alle royalty musicali».
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