La notizia ufficiale della nomina del designer nordirlandese Jonathan Anderson come direttore creativo di Dior Uomo, Donna e Alta Moda è arrivata via mail alle 7,01 del mattino di lunedì 2 giugno. In realtà Bernard Arnault, capo indiscusso del lusso planetario, l’aveva anticipato il 17 aprile scorso, durante l’assemblea degli azionisti del Gruppo Louis Vuitton Moet Hennessy (Lvmh) da lui fondato nel 1987. Nella stessa occasione il business man, che è l’uomo più ricco di Francia e uno dei più ricchi al mondo, ha definito «straordinario» il lavoro di Maria Grazia Chiuri dal 2016 al timone stilistico della maison per l’universo femminile.
Del resto, i suoi risultati sono notevoli, partendo dal fatturato quasi triplicato da 2,9 miliardi del 2018 (secondo Banca Stifel) a 8,2 miliardi stimati da Bernstein per il 2024. Poi Monsieur Arnault ha incassato un’approvazione plebiscitaria (il 99,18% dei 2mila azionisti presenti) alla proposta di estendere l’età massima per la guida del Gruppo da 80 a 85 anni, nove in più dei suoi attuali 76. Ed è così che l’annuncio ufficioso dell’arrivo di Anderson su tutte le poltrone creative della maison – tranne quella dell’alta gioielleria su cui siede dal 1998 Victoire de Castellane – è passato in secondo piano, sebbene avrebbe dovuto far scattare qualche campanello: un passaggio del testimone così repentino della figura chiave della maison non avviene per caso.
Tonfo a Parigi
Proprio due giorni prima che si svolgesse l’assemblea, alla Borsa di Parigi il titolo Lvmh era crollato del 7,5% a quota 489 euro, riducendo il valore complessivo del gruppo a 244 miliardi. Motivo? La relazione trimestrale a fine marzo, chiusa con ricavi in caduta a 20,3 miliardi (-2%) che faceva seguito alla flessione registrata dal bilancio 2024 a sua volta fotografato a quota 84,7 miliardi (-2% anche in questo caso) dopo oltre 15 anni di crescita costante: fatalmente anche l’utile netto ne ha risentito, scendendo a 12,6 miliardi (-17%), di molto inferiore al consenso degli analisti che puntavano a profitti netti per 13,52 miliardi.
In altre parole, è stata soprattutto la curva discendente delle vendite Lvmh che ha deluso il mercato, a fronte del fatto che molti competitor del lusso (a cominciare da Richemont, Burberry, Cucinelli e Zegna) hanno superato le aspettative. Ciò che lascia perplessi è che ben tre delle cinque divisioni del gruppo hanno registrato un calo, compresa la divisione di punta “Moda e Pelletteria” (Louis Vuitton, Dior) che genera quasi metà dell’intero fatturato. Se a questo aggiungiamo il pessimo andamento nel segmento vini e spiriti, la divisione che ha riscontrato le maggiori difficoltà (-8%), appare più chiara la ragione dell’ondata di vendite in Borsa, che quindi non è stata un incidente di percorso.
Il sorpasso
Sta di fatto che proprio quel giorno si è verificato lo storico sorpasso di Hermés, le cui azioni hanno chiuso a 2.355 euro (+0,21%) portando la sua capitalizzazione a 248 miliardi. Ma la tenuta di Hermés ha anche un altro motivo. E qui si apre un capitolo che potrebbe prossimamente portare a valutare le società della moda attraverso un nuovo misuratore. Tra i colossi dell’alta gamma si fa strada infatti l’idea che una valutazione più compiuta delle performance aziendali debba comprendere il rapporto tra l’utile totale e il numero dei dipendenti: è un modo per capire quanta parte del profitto sia generato da ognuno di loro ogni anno, ma serve anche a comprendere quale sia il livello di efficienza e di resilienza dell’azienda in relazione a eventi traumatici che potrebbero interrompere il ritmo di crescita.
Traducendo il concetto in numeri, emerge che nel 2024 Hermés ha generato un utile netto di 182.768 euro per ciascun dipendente: un valore 3 volte superiore a Richemont e a Lvmh e quasi 7 volte più di Dior. L’antica maison vanta infatti un organico di 25.185 dipendenti che generano un utile netto totale di 4,6 miliardi. In pratica, Hermés produce beni per 524.022 euro all’ora e oltre 12 milioni al giorno. A sua volta Richemont, che ha una forza lavoro più numerosa (37.117 persone), nel 2024 ha generato un utile netto di 2,4 miliardi e quindi registra un utile netto annuo per dipendente pari a 63.637 euro. Ben diversa la situazione di Lvmh che con i suoi 215mila dipendenti raggiunge un utile netto annuo pro capite di 58.372 euro. Quindi, anche se l’utile netto e il fatturato totale del gruppo di Arnault sono superiori in valore assoluto a quelli dei competitor, l’elevato numero di dipendenti impedisce di occupare le prime posizioni sul podio secondo questa tecnica di misurazione.
Bisogna però precisare che Lvmh è il brand più veloce a generare un milione di utile netto: 42 minuti contro 101 minuti di Dior, 115 di Hermès e 223 di Richemont. Non è tutto: come abbiamo visto, nel primo trimestre 2025 i ricavi sono calati del 2% rimanendo comunque superiori 20 miliardi di euro. Ebbene, nonostante l’arretramento alcuni analisti finanziari parlano di «buona resilienza», soprattutto se si pensa alla debacle del Gruppo Kering che nel primo trimestre di quest’anno ha perso rispetto all’anno scorso il 25% in Asia, il 13% negli Stati Uniti e l’11% in Giappone. Tutto ciò per arrivare a dire che il passo indietro di Lvmh c’è stato e si vede, ma che prima di far scattare gli allarmi rossi, sotto i ponti deve scorrere ancora molta acqua.
Listini gonfiati
D’altro canto, Lvmh sta pagando il prezzo della sua passata politica dei prezzi. Il rovescio della medaglia dei forti aumenti degli ultimi anni – che hanno migliorato significativamente i margini – è il calo della domanda. Solo colossi come Hermés e Ferrari, i cui volumi sono molto bassi e dunque vicini al concetto di rarità e la cui clientela è limitata e insensibile ai prezzi, possono aumentare continuamente le prese senza impattare sulla domanda. Gli aumenti di prezzo decisi da Lvmh sono stati probabilmente troppo elevati rispetto al valore percepito dai consumatori. Se poi ai prezzi più alti aggiungiamo una non adeguata innovazione e una creatività che ha perso di mordente, meglio si comprende il trend attuale del gruppo. Del resto, è lo stesso management che imputa i recenti risultati negativi alla sfida del value for money e che hanno indotto Arnault ad abbassare lo sguardo mentre, rivolto ai soci, ha dichiarato: «Per una volta, non parlerò di un anno record».
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