Tutto iniziò nel 1889, quando Germano Giuliani, il bisnonno di Giammaria Giuliani, comprò una piccola farmacia a Milano, proprio vicino al Lazzaretto reso famoso da Manzoni. Dopo il bisnonno ci fu il nonno, che iniziò a produrre farmaci, ed ebbe il colpo di genio: si inventò un digestivo celeberrimo, «L’amaro medicinale Giuliani». Poi venne il padre, Gian Germano, il quale presentò l’amaro in tv su Carosello ottenendo un successo incredibile e creando un impero che oggi vale miliardi. Gian Germano è morto pochi mesi fa, sulla soglia dei novant’anni, ma da diverso tempo aveva lasciato il timone dell’azienda in mano ai due figli, Giammaria e Mario Germano, che hanno subito iniziato a diversificare, ad acquistare quote di altre società, a entrare in diversi settori come l’immobiliare, sempre tenendo fortissimo sul farmaceutico, e infine a vele spiegate nel bancario. Giammaria da più di un anno e mezzo ha accettato la proposta della famiglia Rothschild e ha acquistato il 5 per cento della banca Rothschild, diventando un membro del board, insieme a nomi stellari della finanza internazionale come Robert Peugeot, Dassault, e la famiglia proprietaria della Chanel. Oggi è considerato uno dei più audaci e capaci imprenditori italiani, con in tasca un patrimonio personale di circa 2 miliardi di euro.
Giuliani, partiamo dal principio. Da quando era ragazzo. Studi?
«Dai 13 ai 18 anni nella New York Military Academy, la stessa scuola frequentata dall’attuale presidente Donald Trump. E poi a Boston all’università: studi in criminologia».
Perché criminologia?
«Sognavo di diventare un agente dell’Fbi e lavorare per la difesa».
Non pensava a entrare nell’azienda di suo padre?
«No. Anche perché nessuno me lo aveva imposto».
Poi però abbandona l’università dopo un anno e mezzo e torna in Italia. E cosa fa in Italia?
«Il carabiniere».
Cosa?
«Sì. Mi è sempre piaciuto fin da bambino. 18 mesi a Monza».
Ufficiale?
«No, carabiniere semplice. Anche perché l’ufficiale l’avevo già fatto all’accademia militare. Ho conosciuto persone straordinarie con le quali sono ancora in contatto».
Finito di fare il carabiniere?
«Sono andato in una agenzia pubblicitaria. Quando ho iniziato già sapevo che poco dopo sarei entrato alla Giuliani».
Quando entra?
«Nel 2003. La Giuliani era una media azienda in campo farmaceutico».
Che incarico le diedero?
«Affiancamento alle vendite. Andavo in cinque farmacie al giorno. Cercavo di piazzare i nostri prodotti. Scoprivo quali prodotti andavano meglio e cosa chiedevano i clienti. Utilissimo».
La gavetta è durata molto?
«Un anno. Poi mi sono occupato del marketing. Mio fratello gestiva la parte finanziaria. Il problema che avevamo era svecchiare. C’era un gruppo di manager un po’ antico. Ho cercato di capire cosa non andasse. Io chiedevo al management: “Si può fare questo?” , loro rispondevano: “Beh ci vogliono tre anni”. Chiedevo: “E quest’altro?”, “Ci vogliono cinque anni…”. Ho capito che non era vero. Sono andato da mio padre e ho detto: “Qui c’è da cambiare il management”».
E suo padre?
«Mi ha dato mano libera. E io ho agito. Ho cambiato il management e abbiamo iniziato a innovare i prodotti».
La svolta?
«Realizzammo un integratore per i capelli. Curare i capelli per via orale fu una sfida non semplice. In quel campo siamo diventati leader in Italia. Anche nel farmaceutico lanciammo un prodotto globale per la colite ulcerosa».
Cosa cambiò alla Giuliani per sua iniziativa?
«Abbiamo costruito un team di ricerca e sviluppo. Io dissi: “Per essere competitivi dobbiamo innovare, fare prototipi, brevettare”. Questa unità oggi funziona benissimo. È un vantaggio sulla concorrenza. L’azienda ebbe buoni risultati e crebbe. Poi all’improvviso nostro padre decise di ritirarsi. Ci disse: “Ora andate avanti voi”».
E voi cosa faceste?
«Io e mio fratello abbiamo iniziato a investire. Lui si occupava del finanziario, io del marketing. Eravamo complementari».
Con quale strategia?
«La diversificazione».
Cioè?
«Forti investimenti prima nel settore della salute, poi un paio d’anni fa ho deciso di uscire un po’ dal nostro settore. La prima occasione è stata alla Rothschild. Avevamo comprato da qualche anno l’ 1 per cento della banca. Un giorno arrivò una telefonata. Ci dissero: “Noi abbiamo intenzione di fare il delisting e di rendere privata la banca. Scegliete voi cosa fare: uscire, o restare con l’1 per cento, o aumentare la partecipazione”. Ci ho pensato una notte intera. Ho richiamato Alexandre De Rothschild e gli ho detto : “Io salirei di quota al 5 per cento”».
Scelta giusta?
«Penso di non aver sbagliato. Mi trovo molto bene. Sono nel consiglio di amministrazione».
Qual era la dimensione dell’operazione?
«L’operazione del delisting è stata di 3,7 miliardi di euro».
Accanto a lei siedono nomi fra i più prestigiosi.
«Alla Rothschild ti siedi a un tavolo dove sono presenti grandi famiglie. Ci sono persone competenti e gentilissime. Ti vien voglia di stare».
Cosa comporta la crisi geopolitica internazionale?
«Instabilità. Bisogna stare attenti. Forse diversificare di più. Bisogna tenersi un po’ più di liquidità».
Lei è intervenuto anche nell’immobiliare?
«Sì, abbiamo realizzato un investimento con mio fratello a Montecarlo. Un’operazione di private equity».
Ora dove intende investire?
«Intanto sul farmaceutico. Ci occupiamo di diabete, di terapia cellulare, di gene therapy. E poi tecnologie e investimenti in cyber security. È uno dei grossi problemi di oggi».
Che obiettivi si pone?
«In questo periodo tre. Un progetto per la Giuliani a breve termine: un’acquisizione che dia all’azienda respiro internazionale e credo che ci siamo riusciti. Nei prossimi due anni la Giuliani dovrebbe crescere parecchio».
Gli altri due progetti?
«Di uno non posso dire nulla, è prematuro. Un’altra sfida in un settore a me totalmente sconosciuto».
Il terzo?
«Produrre tecnologia in Italia».
Uno sguardo anche a iniziative umanitarie?
«Sì, ho diversi progetti nei Paesi in via di sviluppo e altri negli ospedali come l’Hospital for Special Surgery a New York: eccellenza in ortopedia e reumatologia in America e il Massachusetts General Hospital. Sto seguendo un programma molto ambizioso nella decodificazione dell’Rna alla Brown University. Vedendo il progetto mi sono emozionato. Mi hanno chiesto di entrare nel board. Sono entrato. È un’altra straordinaria sfida. Compenso il mio rimpianto di non essermi laureato».
Lei non sbaglia mai?
«Sbaglio spesso. Se vuoi innovare devi sbagliare. Fa parte del business. Più sbagli più impari e poi se sei bravo arrivi a fare le scelte giuste».
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