A okkupare erano loro, a pagare sempre noi. Ora però “ricreazione” è finita. Ed era ora. Dopo 31 anni di abusivismo, lo storico centro sociale milanese Leoncavallo è stato sgomberato con un’operazione disposta dal Viminale. Nella mattinata odierna la polizia ha dato il via allo sfratto nello stabile di via Wattau, dopo che l’ordine era stato rinviato numerose volte. “Il governo ha una linea chiara: tolleranza zero verso le occupazioni abusive“, ha commentato il ministro degli Interni, Matteo Piantedosi. Cala così il sipario su una lunga stagione di presenza irregolare che iniziava a gravare anche sui conti pubblici.
“Per trent’anni quell’immobile è stato occupato abusivamente. E al danno si è aggiunta la beffa: lo Stato costretto persino a risarcire i danni dell’occupazione“, ha ricordato lo stesso Piantedosi al riguardo. Nel novembre 2024, la Corte d’Appello civile di Milano aveva infatti condannato il Ministero dell’Interno a risarcire la famiglia Cabassi, legittima proprietaria dello stabile occupato, per il mancato sgombero dell’immobile. La cifra stabilita? Tre milioni di euro, chiesti dopo la mancata esecuzione di oltre 110 provvedimenti di sfratto notificati dal 1994 a oggi. Lo sgombero, quindi, non solo era legittimo, ma era anche stato predisposto più volte dalle autorità.
Ma questo non è l’unico dato economico che fotografa quanto l’occupazione del Leoncavallo sia stata tollerata (a spese nostre). Già nel 2012, come riportato da Milano Today, il centro sociale aveva dichiarato ricavi per 543mila euro, sottoscrizioni per 645mila e 1.600 euro dal 5 per mille. Totale entrate: poco più di un milione e 190 mila euro. In compenso, nessun affitto pagato per la struttura che fino a oggi ha ospitato le iniziative dello storico centro sociale. In quel consuntivo, la voce più rilevante fra le uscite era quella per spese legali: circa 42mila euro per difendersi nei tribunali da provvedimenti di sgombero mai eseguiti. Le spese per la comunicazione, all’epoca, ammontavano invece a 7mila euro.
Si tratta di numeri non aggiornatissimi, che tuttavia raccontano il Leoncavallo in termini economici, costringendo l’osservatore a guardare da un’altra prospettiva la realtà aggregativa da tempo al centro del dibattito politico e pubblico. Nei mesi scorsi, il sindaco di Milano, Beppe Sala, aveva espresso parole di apprezzamento per il Leonka e lo aveva definito “un valore storico per la città“. Il tentativo più serio di regolarizzare il noto centro sociale era però avvenuto durante la giunta di Giuliano Pisapia, con un accordo già trovato coi Cabassi (la proprietà) per uno scambio tra l’ex cartiera di via Watteau, che sarebbe andata al Comune, e l’ex scuola di via Zama più una palazzina in zona Gambara dal Comune ai Cabassi. Tentativo fallito per l’opposizione in consiglio comunale sia del centrodestra sia di Rifondazione comunista, secondo cui nello scambio il Comune ci avrebbe perso troppo.
Intanto, si consentiva che quello spazio autogestito alimentasse le proprie finanze in un contesto di abusivismo tollerato e in alcuni casi addirittura elevato a modello. Così narrazione del “centro culturale libero” ha finito per coprire, col tempo, una forma di vera e propria occupazione.
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