Al netto di pensioni e sanità, il welfare pubblico è in larga parte “non riscosso”. Ci sono almeno 1.000-1.200 euro in bonus di vario genere, per ogni lavoratore, che non vengono utilizzati. É la stima offerta da una società specializzata “Bonoos” che ha stilato un elenco di almeno 700 diverse tipologie di public benefit – messi a disposizione dallo Stato e dalle regioni – che potrebbero essere incassati, ma che non sempre lo sono.
Le ragioni
Il problema è noto. L’ultimo rapporto dell’Inps fotografa il fatto, ma non quantifica: «Il fenomeno dei diritti inespressi o del non-take-up che riguarda le persone che, pur avendo i requisiti per l’acceso alla prestazione non la chiedono, è ancora presente nel sistema di welfare a domanda». Una questione non solo italiana, si badi bene: l’ultima indagine di Eurofound disponibile sostiene che a livello europeo il non-take-up vale il 40% delle risorse messe a disposizione. Ma mentre nei Paesi del Nord Europa, come sostiene il sito specializzato Secondo Welfare sono stati attivati osservatori pubblico-privati (o collaborazioni strutturate con alcune università) per studiare e misurare il fenomeno – per poi cercare di mitigarlo – in Italia si procede a tentoni.
Secondo le stime del Think Tank “Welfare Italia” di Unipol-Ambrosetti, in Italia il welfare (inteso come somma di sanità, politiche sociali, previdenza e istruzione) rappresenta la principale voce di spesa pubblica con 662,7 miliardi di euro, circa il 58% della spesa pubblica. La spesa previdenziale assorbe la metà delle risorse, ovvero il 51% della spesa sociale totale, a seguire, la spesa sanitaria (21%), quella in politiche sociali (16%) e la spesa in istruzione (12%). Nelle “politiche sociali” (quasi 110 miliardi di euro in un anno) ci sta la congerie di bonus di cui parliamo.
Ma nessuno ne conosce il consumo. L’Inps si limita a scrivere che si tratta di un doppio problema di “conoscibilità e accessibilità”: «Dalle evidenze, infatti, spesso risulta che i take-up relativamente bassi, ossia il rapporto fra il numero di individui che ricevono la prestazione e il totale di coloro che ne avrebbero diritto, sono dovuti alla mancata conoscenza della prestazione o alla necessità di supporto nel momento della presentazione della domanda». Insomma, occorrerebbe una buona e capillare informazione e una efficiente intermediazione. Un brutto voto per gli attuali intermediari (patronati e Caf)?
Le soluzioni
Pochi osano spingersi a questa valutazione, ma il problema è serio, soprattutto in una stagione in cui le risorse pubbliche sono sempre più – notoriamente – scarse. Sprecarle, cioè metterle a bilancio e poi non consumarle, è grave in sé e per la possibilità di gestire con rigore e consapevolezza una non piccola fetta di spesa pubblica.
Non solo. «Nel Paese con i salari tra i più bassi in Europa queste opportunità non dovrebbero andare perdute», commenta Giovanni Scansani, cofondatore di “Bonoos”, che ha fatto di questa lacuna strutturale una possibile area di business per integrare di fatto il welfare aziendale. «I piani di welfare aziendale possono essere di fatto implementati a costo zero per le aziende, solo ottimizzando i diritti di riscossione dei dipendenti», aggiunge Scansani, che si rivolge ovviamente agli Hr manager di quelle imprese che potrebbero di fatto raddoppiare il valore del welfare per i propri collaboratori, visto che la media dei piani di welfare aziendali a oggi (fonte Edenred) si aggira proprio sui 1.000 euro all’anno.
Molte misure pubbliche, infatti, non prevedono requisiti di tipo economico per essere acquisite, mentre, per quelle che prevedono limitazioni da comprovare con l’attestazione Isee, «l’asticella è spesso fissata a livelli del tutto compatibili con la posizione economica e patrimoniale nella quale ricade la gran parte dei lavoratori dipendenti», spiega Scansani. Si pensi alla previsione di livelli Isee che alcuni bonus fissano a 30mila, 40mila o 50mila euro.
In pratica
In sostanza, l’integrazione dei public benefit come “terzo pilastro” del sistema dei benefit aziendali (aggiungendosi ai fringe benefit e ai flexible benefit) è capace di raddoppiare il valore del welfare complessivamente disponibile per ciascun lavoratore beneficiario.
Il rilevante effetto che l’apporto dei public benefit genera rispetto al valore complessivo del budget individuale disponibile (dato dalla sua componente aziendale sommata a quella pubblica dei bonus) ha indotto alcune aziende più all’avanguardia ad includere, nei percorsi di Educazione Finanziaria resi disponibili ai propri dipendenti, anche un focus sulla corretta gestione del “Credito Welfare” trattato alla stregua dei restanti asset di cui dispone il lavoratore e il suo nucleo familiare.
In un suo recente intervento sul sito specializzato Wewelfare.it, Scansani concludeva: «Anche questa è un’ulteriore evidenza del rilievo che l’integrazione tra welfare aziendale e welfare pubblico sta assumendo nell’ambito dello sviluppo delle iniziative di benessere prescelte dalle imprese per sostenere la loro organizzazione».
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