La legge di Bilancio 2024, insieme all’inflazione record del biennio alle spalle, ha provocato un pesante ridimensionamento delle pensioni medio-alte. È quanto emerge dall’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate “La svalutazione delle pensioni in Italia”, realizzato da Cida e Itinerari Previdenziali, secondo cui le perdite per i pensionati oscillano da 13.000 euro fino a oltre 115.000 euro nell’arco di dieci anni, a seconda dell’importo degli assegni.
Le cifre principali
Dal 2012 al 2025, complice il susseguirsi di blocchi e tagli, le pensioni hanno subito una svalutazione complessiva di oltre il 21%. Una pensione da 10.000 euro lordi mensili ha perso quasi 178.000 euro, mentre un assegno da 5.500 euro lordi ha visto svanire circa 96.000 euro. Nonostante ciò, i 1,8 milioni di pensionati con redditi oltre i 35.000 euro lordi – appena il 14% del totale – versano da soli il 46,33% dell’Irpef della categoria.
Cuzzilla: “Un rovesciamento del principio di equità”
Per Stefano Cuzzilla, presidente di Cida, si tratta di una vera ingiustizia: «In trent’anni le pensioni medio-alte hanno perso oltre un quarto del loro potere d’acquisto: una pensione da 10 mila euro lordi al mese ha visto svanire quasi 180 mila euro, l’equivalente di un anno intero di assegno».
Cuzzilla sottolinea la contraddizione del sistema: «Siamo di fronte a un autentico rovesciamento del principio di equità. Chi ha versato per decenni ed è il principale sostenitore fiscale del Paese è proprio chi oggi viene colpito di più».
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Pensioni come salario differito
Per il leader di Cida, la narrazione sulle pensioni va ribaltata: «Le pensioni non sono un privilegio, ma salario differito, frutto di una vita di lavoro e di tasse pagate. Sono anche il più grande patto intergenerazionale: chi lavora oggi sostiene chi ha lavorato ieri, nella certezza che domani il proprio impegno sarà riconosciuto».
Brambilla: “Regole stabili ed eque”
Sulla stessa linea anche Alberto Brambilla, presidente del Centro studi Itinerari Previdenziali: «Rispetto alle persone in età attiva, i pensionati hanno meno possibilità di difendersi dall’inflazione, tanto che il mantenimento del loro potere d’acquisto è affidato quasi esclusivamente ai meccanismi di indicizzazione: ecco perché sarebbe innanzitutto importante avere regole stabili nel tempo e, ancora di più, eque».
Il problema della perequazione
Un punto critico riguarda il meccanismo di rivalutazione. «La perequazione sfavorevole è stata applicata sull’intero reddito pensionistico e non per scaglioni – precisa Brambilla –. Nel 2023, ad esempio, un pensionato con rendita tra 2.627 e 3.152 euro ha visto rivalutata l’intera pensione al 4,3%, mentre l’inflazione reale era dell’8,1%».
Il nodo della fiducia
Cuzzilla conclude con un appello alla politica e alla magistratura: «La fiducia del sistema previdenziale si regge sulla certezza del diritto e sulla stabilità delle regole. Colpire chi ha versato quarant’anni di contributi significa rompere il patto sociale e generazionale. Non è un caso che la Corte Costituzionale abbia richiamato l’attenzione del legislatore su questi squilibri, e che il Tribunale di Trento abbia appena rinviato la questione per un nuovo esame. È un segnale che ci dà un cauto ottimismo: rimediare è possibile».
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