Ogni sei mesi, a marzo e a settembre, puntuale come un orologio l’Istat pubblica una revisione dei conti economici nazionali. Numeri che dovrebbero essere la bussola delle politiche di bilancio si trasformano invece in una fonte di preoccupazione mista a irritazione per il Tesoro. Arrivano sempre ex post, quando la manovra è già stata scritta (o pensata) in modalità “prudenziale” per rispettare i vincoli europei. Il risultato è un paradosso: l’Italia appare più ricca di qualche miliardo, ma troppo tardi per spendere meglio o di più. Come diceva Giulio Andreotti, «a pensar male degli altri si fa peccato, ma molto spesso ci si indovina». Dunque, per quanto possa sembrare malizioso, è molto difficile astenersi dall’ipotizzare che qualche “manina a cinque stelle” possa inserire qualche ritocchino al ribasso se politicamente opportuno.
I numeri
I dati delle ultime revisioni sono eloquenti. Tra la stima di marzo e quella di settembre di quest’anno il Pil 2023 è salito da 1.920,5 a 1.925,4 milioni di euro. Si tratta di oltre 4,9 miliardi in più, una correzione al rialzo dello 0,26% circa. Nello stesso periodo il conto del 2024 è passato da 1.934,4 a 1.938,8 miliardi. Si tratta di circa 4,4 miliardi (+0,23%), arrotondamenti inclusi. Ancora più marcato il confronto con settembre dell’anno scorso. Il Pil 2023 valeva allora 1.917.249 milioni, a oggi l’ammontare è cresciuto di oltre 8,2 miliardi (+0,43%). Non sono scossoni percentuali giganteschi, ma in valore assoluto sono miliardi capaci di cambiare un bilancio pubblico.
Secondo l’Istat, il Pil a prezzi correnti del 2024 si è attestato a 2.199,6 miliardi, mentre la crescita reale 2023 è stata rivista da +0,7% a +1%. Numeri che, oltre a migliorare il quadro, hanno effetti concreti: la correzione sul biennio ha ridotto l’indebitamento netto 2024 di circa 1,6 miliardi, da 75,5 a 73,9 miliardi. Non bruscolini, se si pensa che molte misure ipotizzate dal governo per la legge di Bilancio 2026, dal rinnovo dei tagli Irpef alla rottamazione fino agli incentivi destinati alle imprese, costano ciascuno nell’ordine dei 4-5 miliardi.
Per il Tesoro il problema è semplice: con dati rivisti al rialzo disponibili solo ex post, il rischio è spendere meno di quanto i margini reali avrebbero consentito. E così la prudenza, necessaria per non sforare il Patto di Stabilità, diventa un freno allo sviluppo. Basti pensare che, di passaggio in passaggio, il Pil del 2023 è cresciuto di 57,2 miliardi (+2,7%) rispetto ai primi numeri di aprile 2024. Se si guarda alla sua composizione, la delusione che aleggia nei corridoi di Via XX Settembre è comprensibile. La crescita italiana è stata spinta soprattutto dagli investimenti fissi lordi, cresciuti del 10% (44 miliardi) nelle tre revisioni degli ultimi 12 mesi. Dunque, un incremento seppur minimo dei margini di bilancio consente di destinare più risorse alla spesa per investimenti il cui ritorno in termini di Pil è pari al 75% a fronte del 50% destinato ai consumi.
Spiegato in modo ancor più semplice, un euro destinato alla costruzione o al rifacimento di una strada “crea” 0,75 euro di Pil a fronte dei 50 centesimi ottenuti con uno sgravio fiscale, magari dedicato ai redditi più bassi. La frustrazione è palpabile: ogni revisione scombina i piani, obbliga a spiegazioni faticose in Parlamento e lascia dietro di sé la sensazione di occasioni perdute. Una circostanza tanto più spiacevole se si pensa che le tecnologie moderne – dall’intelligenza artificiale alla data analysis – consentono di ridurre sensibilmente il margine di errore.
Il problema politico
C’è poi la dimensione politica, che ha un certo peso. L’Istat oggi è guidato da Francesco Maria Chelli, il cui nome è stato indicato dal governo attualmente in carica, ma tra il 2018 e il 2021, nel corso dei due governi Conte, il Movimento 5 Stelle ha visto notevolmente aumentare la propria influenza sull’istituto. Da qui nasce la percezione – ben radicata nei corridoi dei palazzi romani – che l’Istat abbia sviluppato una particolare “sensibilità” più politica che scientificamente neutrale. C’è poco da fare: se la crescita langue, per l’opinione pubblica è colpa del governo. Un riflesso condizionato che si può “stimolare” più facilmente se le cifre ufficiali sono sottostimate rispetto a quelle reali.
Beninteso, questa narrativa non è affatto nuova. Già ai tempi del governo Renzi l’ex premier si lamentava di come le revisioni penalizzassero la sua credibilità, tanto più che nel triennio 2014-2016 il Pil era praticamente sclerotizzato dalle crisi antecedenti. Oggi, però, questa tendenza pesa di più perché l’Italia deve compiere uno slalom ancor più complicato fra traiettorie di bilancio e necessità di sviluppo. Volendo evitare polemiche di natura politica giacché si parla di numeri, si può rovesciare la questione. Si possono prendere per oro colato le annuali statistiche che evidenziano un incremento dei tassi di povertà in Italia se il calcolo del Pil non è matematicamente preciso? E se la risposta fosse negativa, sarebbero forse queste tabelle un modo per mettere surrettiziamente in mora le politiche dell’esecutivo? Domande non oziose, che meritano risposte nette senza rettifiche a posteriori.
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