Non ha memoria l’oro, ma i mercati sì. E la memoria, si sa, è selettiva ma implacabile: torna a evocare con chiarezza quei momenti della storia finanziaria in cui, nelle fasi di turbolenza sistemica, era il metallo giallo – più dei titoli di Stato – a offrire rifugio. Oggi quella dinamica si ripete. Solo che questa volta il contesto è più sofisticato, i capitali più mobili e le crepe più profonde. Così, in un tempo in cui anche la solidità sovrana scricchiola, è proprio l’oro – privo di cedole, ma anche di promesse – a tornare ad attrarre.
Questa settimana il prezzo dell’oro si è spinto fino a sfiorare quota 3.800 dollari l’oncia con proiezioni, credibili, ben oltre 4.000. Un livello che ha smesso di essere simbolico e che racconta di una nuova centralità strategica del lingotto. Non è solo una rivalutazione finanziaria, ma un riequilibrio sistemico: l’oro è tornato a essere l’ancora di fiducia globale in un mondo in cui persino le obbligazioni statali iniziano a perdere il loro smalto di inviolabilità.
A prima vista, il mercato dei bond sovrani sembra stabile. Gli spread si comprimono, la volatilità è relativamente contenuta, le aste si chiudono con collocamenti regolari. Ma sotto la superficie, come avverte il Broad Markets Fixed Income Team di Morgan Stanley, si accumulano pressioni che potrebbero esplodere. Una tenuta apparente che maschera tensioni più profonde: deficit elevati, conti pubblici fuori equilibrio, percorsi politici incerti, con Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti sotto osservazione per motivi diversi ma una radice comune: la sostenibilità fiscale.
In questo scenario, le curve dei rendimenti si fanno più ripide. I rendimenti reali – cioè al netto dell’inflazione – sono tornati ai livelli dei primi anni Duemila. È un segnale forte, una cesura netta rispetto all’era della repressione monetaria che ha dominato la finanza globale per oltre un decennio dopo la crisi del 2008. Ma ciò che colpisce è che, nonostante i rendimenti più alti, le obbligazioni non riescono più a offrire sicurezza. Il motivo è semplice: non è il numero assoluto che conta, ma la fiducia che lo sorregge. E quella, oggi, è fragile.
Cos’è cambiato? Un mix di fattori ha ridotto l’appeal del debito sovrano, anche di Paesi storicamente solidi. L’incertezza fiscale, l’autonomia delle banche centrali messa sotto pressione, l’instabilità geopolitica che non dà tregua. Negli Stati Uniti, l’avvio del secondo mandato Trump ha riaperto il fronte delle tensioni commerciali e ha aggiunto una nuova componente di rischio politico. L’ipotesi di una Fed condizionata dalla Casa Bianca – spinta a tagliare i tassi contro il proprio giudizio – è oggi considerata con timore dagli operatori. E i mercati lo scontano: basti dire che il rendimento del decennale americano è stabilmente sopra il 4%, non per aspettative di crescita, ma per percezione di rischio.
In Giappone, i rendimenti dei bond trentennali hanno registrato un’impennata di oltre 100 punti base in pochi mesi, riflettendo un’inflazione più persistente del previsto. In Francia e Gran Bretagna, le stesse scadenze sono salite a livelli che non si vedevano dal 2008 e dal 1998. Perfino i Bund tedeschi, simbolo di sicurezza per definizione, hanno subito vendite consistenti. Quando anche la Germania non è più considerata rifugio, il messaggio è inequivocabile: qualcosa di profondo si è rotto.
Una parziale eccezione è l’Italia. Le ultime emissioni di Btp hanno raccolto adesioni significative, anche da parte di investitori esteri. Merito di rendimenti competitivi e di un recupero reputazionale che premia i recenti sforzi di consolidamento fiscale. Ma si tratta di una dinamica congiunturale, più che strutturale: un rimbalzo dopo anni di penalizzazione, non un cambio di paradigma.
È in questo vuoto di fiducia che l’oro si riafferma. Nonostante non produca interessi, e non sia uno strumento finanziario nel senso classico, oggi il metallo prezioso rappresenta l’unico asset percepito come veramente indipendente: neutrale rispetto alle politiche fiscali, immune da default, indifferente alle scelte monetarie. Non è un caso che, negli ultimi due anni, siano state proprio le banche centrali ad averne alimentato la domanda. Secondo il World Gold Council, nel primo semestre 2025 le banche centrali hanno acquistato oltre 290 tonnellate d’oro. Dopo le 1.037 tonnellate accumulate nel 2023 – il massimo da quando esistono dati sistemici – è chiaro che la tendenza non è episodica, ma strategica.
In testa alla classifica degli acquirenti troviamo la Banca Popolare Cinese, seguita da Turchia, India, Russia e Singapore. L’obiettivo è evidente: diversificare le riserve, ridurre la dipendenza dal dollaro e rafforzare l’autonomia strategica in un mondo multipolare.
La speculazione professionale, naturalmente, ha seguito il movimento. Ma non è stata lei a guidarlo. Il rally è nato da flussi istituzionali e governativi, da una domanda reale che ha molto a che vedere con la gestione del rischio. E tuttavia, nemmeno l’oro è immune da agenti esterni. Il pericolo infatti è la velocità del rialzo: una crescita troppo rapida rischia di attrarre capitali “mordi e fuggi” e trasformare un bene rifugio in un asset instabile. Inoltre, se le banche centrali dovessero tornare a politiche restrittive più aggressive, magari per rispondere a nuove fiammate inflazionistiche, i rendimenti reali delle obbligazioni tornerebbero competitivi, e l’oro perderebbe parte del suo appeal.
Ma oggi questo scenario resta sullo sfondo. Il presente racconta altro: una sfiducia crescente nella qualità del debito sovrano, un disincanto verso la capacità delle banche centrali di restare indipendenti, e un mondo in cui l’incertezza non è più transitoria, ma sistemica. Va anche detto che in questo quadro, l’oro è meno una soluzione e più un segnale. Non risolve i problemi, ma li illumina. Infine, è vero che l’oro non produce reddito, ma è altrettanto vero che non presenta rischio di controparte. Non promette, ma mantiene. In tempi di dubbio, può bastare. E forse è per questo che, quando tutto il resto vacilla, è naturale – anche se non rassicurante – che gli investitori tornino a rifugiarsi lì.
© Riproduzione riservata