Stati Uniti e Europa firmano la tregua sui dazi. Il compromesso, siglato tra le colline della Scozia in un vertice lampo tra Donald Trump e Ursula von der Leyen, prevede tariffe aggiuntive al 15%.
La stessa soglia concordata nei giorni scorsi dagli sherpa, che avevano condotto le trattative dal punto di vista tecnico in vista del D-day, chiamato a porre fine alla guerra commerciale.
La prudenza mantenuta dalle parti prima dell’incontro – “abbiamo il 50% di possibilità” di trovare una intesa, avevano frenato entrambi – era quindi soprattutto tattica.
“Ce l’abbiamo fatta, è l’accordo più importante di sempre”, hanno esclamato i protagonisti. Effettivamente la mannaia del 30% è sventata così come le ritorsioni già predisposte da Bruxelles.
Non per questo, c’è però molto da stare allegri perché, indipendentemente da quale sarà domani mattina la reazione di Piazza Affari e delle altre Borse mondiali (un primo assaggio arriverà tra poche ore dai mercati asiatici), si tratta di tariffe aggiuntive.
Un altro fardello protezionistico che, complice la frenata del dollaro rispetto all’euro, finirà per danneggiare il libero mercato e soprattutto frenare l’export europeo verso gli Stati Uniti. Con potenziali riflessi recessivi in termini di Pil.
In particolare, il compromesso tra Stati Uniti e Unione Europea prevede, come ha preteso Washington, che il settore farmaceutico resti escluso dall’accordo; di contro è stata ridotta la pena inflitta al settore dell’auto, il grande malato europeo, che sarà soggetto anch’esso a tariffe al 15%.
Un livello tutto sommato accettabile e subito benedetto dalla Germania del cancelliere Friedrich Merz che ha applaudito alla raggiunta intesa.
Soddisfatta anche Roma. “Il governo italiano accoglie positivamente la notizia del raggiungimento di un accordo tra Unione Europea e Stati Uniti sui dazi e le politiche commerciali, che scongiura il rischio di una guerra commerciale in seno all’Occidente, che avrebbe avuto conseguenze imprevedibili”, si legge in una nota congiunta della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dei due vicepremier, Antonio Tajani e Matteo Salvini.
L’Unione Europea effettuerà 600 miliardi di investimenti in più negli Usa e acquisterà 750 miliardi di energia, emancipandosi così ulteriormente dalle forniture russe, ha esultato il tycoon; al totale si aggiungono poi gli acquisti nel settore militare nell’ambito deciso riarmo dell’Unione dinanzi al conflitto in Ucraina.
Il settore auto “oggi deve pagare il 27,5% di dazi. Da quel livello siamo scesi al 15%” che “non è da sottovalutare, ma è il massimo che siamo riusciti a ottenere”, ha detto la presidente della Commissione Ue ringraziando “personalmente” Trump che definisce un “grande negoziatore” e un “dealmaker”.
Insomma, al momento sia Stati Uniti sia Bruxelles preferiscono vedere il bicchiere mezzo pieno. Anche perché per alcuni prodotti strategici – come aeromobili, semiconduttori e in parte i prodotti agricoli – è stata concordata la politica dei “dazi zero”.
L’elenco dettagliato resta però ancora da definire. Non solo, e questa è un’altra ombra, per acciaio e alluminio resta lo status quo, con tariffe al 50%. Quindi pesantissime.
Un punto quest’ultimo su cui Bruxelles continua a sperare di strappare qualcosa di meglio. Certamente i paesi Ue, Italia in testa, cercheranno altri mercati di sbocco, dal Sud America all’Asia, per le proprie merci. Ma non sarà facile.
Secondo uno studio del think tank Bruegel, è l’Irlanda il Paese più esposto ai dazi statunitensi seguita da Italia, Germania e Francia in termini di posti di lavoro legati all’export oltreoceano.
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