C’è un pezzo di Stati Uniti d’America che sta in Italia dal 1915. E viceversa: da più di un secolo le imprese italiane che vogliono andare in Usa trovano in casa un punto di riferimento per pianificare l’operazione. È l’American Chamber of Commerce in Italy o, più semplicemente, AmCham, che il 23 giugno scorso, con l’Assemblea annuale dei soci e un evento a Palazzo Mezzanotte, ha spento le sue prime 110 candeline.
Moneta ha preso la palla al balzo: chi meglio di Simone Crolla, consigliere delegato di AmCham, può dare una misura dei rapporti tra Italia e Usa e tra America ed Europa in questo momento di grandi turbolenze legate alla nuova amministrazione Trump? Perché non v’è dubbio che AmCham sia un osservatorio molto privilegiato. «Lo è – dice Crolla – soprattutto se si pensa che dal 1915 ha attraversato tutti i periodi più turbolenti del Novecento. E siamo ancora qui dove siamo nati, a Milano. Per me questo è il diciottesimo anno di servizio e in questo tempo abbiamo rafforzato la nostra presenza in tutta la Penisola. È da poco operativo il nuovo presidio in Sardegna, ultimo dei tanti che abbiamo in tutte le regioni italiane. Ed è una delle caratteristiche che contraddistingue AmCham da altre Camere di commercio straniere in Italia. Quella americana è la più storica e la più grande».
Un modello che consente da sempre di mappare i tanti investimenti americani nel Belpaese. Non solo: «Di converso – continua Crolla – questa rete ci aiuta a entrare in contatto con gli imprenditori italiani per l’investimento in corso o da fare in Usa. E poi rappresentiamo ormai un network informalmente a disposizione della missione diplomatica americana, che oltre all’ambasciata conta i tre consolati di Roma, Napoli e Milano (Firenze è in chiusura, ndr). Siamo proattivi e operativi, al di qua e al di là dell’Oceano, dove ci sono nostri referenti in tanti Stati americani».
In altri termini AmCham opera come una sorta di società di consulenza applicata al business transatlantico, ma no profit: i soci contribuiscono al network senza finalità di lucro. E da tale osservatorio cosa si è visto in questi primi mesi si presidenza Trump? «Per quanto ci riguarda – risponde Crolla – non c’è nulla di molto nuovo rispetto a quanto si sapesse già. Trump ha spiegato il suo pensiero, con interviste e dibattiti, fin dalla fine degli anni Ottanta. E cioè l’idea che gli Usa hanno garantito per decenni prosperità e sicurezza a discapito del sistema produttivo interno o del welfare state. Dopodiché adesso c’è sicuramente un effetto sorpresa nella velocità e nella durezza di queste posizioni. E l’Europa sembra il bersaglio dei suoi strali. Ma a ben guardare non manca una razionalità. Negli scambi commerciali l’Europa è stata più protezionista degli Usa. Serve un riequilibrio che la Ue dovrebbe tenere in considerazione».
Una razionalità che gli europei non hanno finora visto bene. Ma che Crolla sintetizza in quattro punti, che Trump ha in mente da più di trent’anni: «È così. Il primo è l’automotive, settore in cui la Ue applica un dazio quattro volte superiore agli Usa. Secondo, l’agricoltura, dove la Pac protegge gli europei ed esclude gli americani. È un tema che riguarda anche le barriere non tariffarie: i prodotti americani, carni e pesci compresi, che non rispettano certi standard, nella Ue non entrano e non possono nemmeno transitare su suolo europeo, come nel caso dei bovini vivi e come ben delineato nell’ultimo rapporto “Foreign Trade Barriers” dell’US Trade Representative. Terzo punto, l’energia, con la questione del gas liquido a cui la Ue preferisce altri prodotti. Infine c’è il tema delle digital tax. Non è un caso che questi quattro argomenti sono gli stessi alla base dell’accordo raggiunto con il Regno Unito».
D’altra parte anche Obama, ai tempi del Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), cercò di negoziare con l’Europa accordi analoghi. Solo che ora la Ue è di fronte a un aut aut: o si trova l’accordo o ci sono dazi. «In ogni caso – continua Crolla – se rimanesse il dazio universale del 10% noi diciamo che sarebbe sostenibile». Dopodiché la vera partita si gioca in Italia. E di conseguenza in tutta Europa. Perché il tema, in questo contesto, è la capacità di attrarre gli investimenti americani.
«Noi apprezziamo la linea del governo italiano, bene la premier Meloni, perché l’obiettivo, mentre negoziamo, è quello di essere attrattivi per gli investimenti nel Paese. E se non lo facciamo noi italiani, lo faranno altri Paesi europei. Servono riforme, meno burocrazia, infrastrutture. Le faccio un esempio: l’AI si alimenta con i data center. Milano e la Lombardia sono tra le zone più ambite da private equity e big tech. Ma a oggi la legislazione non è pienamente efficiente. Dobbiamo diventare più welcoming».
C’è poi il tema della guerra, dell’ultimo conflitto con l’Iran, di un cambiamento nel nuovo ordine mondiale. Ma qui Crolla non entra nel merito. Si limita alla considerazione condivisa da tutta la comunità di AmCham: «In questi 110 anni abbiamo attraversato ogni possibile difficoltà. E le dico che abbiamo superato momenti molto più brutti di questo, come la crisi finanziaria del 2008 o l’11 settembre. Poi il commercio si riprende più forte di prima. Ma bisogna sapere
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