In un’Europa che punta alla neutralità climatica e annuncia misure green a ritmo serrato, un settore considerato chiave per la transizione rischia il collasso. È quello della plastica. Un tempo fiore all’occhiello della manifattura continentale, ora emblema di un declino produttivo che va ben oltre le normali flessioni di mercato. Siamo di fronte a una crisi sistemica senza precedenti, che se non contenuta, rischia di far collassare un altro settore competitivo e importante per l’Europa e l’Italia.
Dal 2023 hanno già chiuso circa 40 impianti, con Regno Unito e Paesi Bassi in testa. Nel 2025, solo nei primi sette mesi, la capacità di riciclo persa ha già eguagliato quella dell’intero 2024. E se il trend continuerà, entro fine anno le chiusure saranno triplicate rispetto al 2023, con la perdita netta di quasi un milione di tonnellate di capacità: l’equivalente di tutta la Francia. L’allarme arriva dall’associazione di categoria Plastics Recyclers Europe.
L’Italia è la prossima linea del fronte. Secondo i dati di Assorimap, l’associazione nazionale riciclatori e rigeneratori di materie plastiche, gli utili del comparto sono crollati dell’87%, passando da 160 milioni di euro nel 2021 a soli 20 milioni nel 2023. «Siamo in piena crisi industriale, e senza interventi strutturali, molte imprese non sopravvivranno – ha detto a Moneta Walter Regis, presidente dell’associazione che rappresenta oltre 350 aziende italiane del riciclo e più di 10.000 addetti – Già adesso le attività lavorano con capacità installata ridotta del 20, 30 e anche 40 per cento».
I nodi che strangolano
La crisi, giunta ormai al quarto anno, è causata da una combinazione di fattori. Importazioni a più basso costo dall’Asia – spesso senza garanzie di tracciabilità – stanno inondando il mercato europeo. Oggi oltre il 20% dei polimeri consumati nell’Ue proviene dall’estero, senza che se ne conosca l’esatta composizione. Infatti, «non esiste ancora un codice doganale che identifichi il riciclato rispetto al vergine, e soprattutto manca un sistema comunitario di certificazione e tracciabilità che garantisca il contenuto di riciclato dichiarato», ha rivelato Regis, che definisce la situazione attuale con una sola parola: caos. Risultato? Una concorrenza sleale che premia chi produce con standard più bassi a danno dell’ambiente e dei consumatori.
A questo si sommano costi energetici elevati, domanda interna in calo, burocrazia frammentata ed eccessiva. A pochi mesi dall’entrata in vigore del Regolamento sui Rifiuti di Imballaggio (PPWR) – l’11 febbraio scorso, per la precisione – la Commissione europea si sarebbe concentrata sullo sviluppo di circa 50 atti legislativi secondari per dettagliarne l’attuazione, secondo le associazioni del settore. E così, mentre Bruxelles impone target di riciclo sempre più ambiziosi (come il contenuto minimo di plastica riciclata nel packaging), senza sostenere attivamente l’industria con finanziamenti e incentivi, le materie plastiche a fine vita, anziché essere valorizzate localmente, vengono spedite in Asia, dove le regole sono più blande, e da lì ritornano sotto forma di plastica “riciclata”, ma di dubbia qualità.
Il quadro si completa con oneri amministrativi, tra cui eccessive formalità burocratiche e lunghi ritardi nell’ottenimento e nel rinnovo delle autorizzazioni di riciclo, che scoraggiano gli investimenti per sviluppare impianti di riciclaggio basati su tecnologie innovative.
Secondo il report Plastics – The Fast Facts di Plastics Europe, la quota globale della produzione europea di plastica è scesa dal 22% del 2006 al 12% nel 2024. Il fatturato è precipitato da 457 miliardi di euro nel 2022 a 398 miliardi nel 2024, segnando un -13% in due anni. Il confronto con l’Asia è impietoso: qui si produce il 57% della plastica mondiale, con la Cina da sola che ne produce il 34,5%, quasi tre volte di più dell’intera Ue. E nella plastica circolare, quella “verde”, Pechino ha già sorpassato Bruxelles e strappato all’Europa la sua posizione di leadership: 13,4 milioni di tonnellate prodotte nel 2024 contro gli 8,4 milioni dei paesi Ue. Una distanza che rischia di allargarsi ulteriormente.
L’appello dell’industria
«L’industria europea della plastica è sull’orlo del baratro, con la sua competitività in calo. I campanelli d’allarme dovrebbero suonare nella Commissione europea e nelle capitali dell’Ue. La nostra leadership politica deve decidere se l’Europa vuole sviluppare il primo sistema circolare al mondo per la plastica o decarbonizzare attraverso un’ulteriore deindustrializzazione», ha avvertito Virginia Janssens, ceo di Plastics Europe, lanciando l’allarme alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e chiedendole con urgenza misure strategiche per evitare un collasso che avrebbe ripercussioni sull’intera economia della zona euro. Non solo. Oltre al danno industriale, anche la beffa: bloccando lo sviluppo del comparto del riciclo, sarà impossibile raggiungere quegli obiettivi imposti dalla stessa Ue, sia in termini di decarbonizzazione sia in ottica di sostenibilità ambientale, poiché la capacità di riciclaggio dovrebbe raddoppiare entro il 2030.
A livello nazionale, intanto, la filiera italiana ha consegnato a inizio mese al Ministero dell’Ambiente una proposta articolata in sei punti: dai controlli doganali sulle importazioni sospette, alle misure sul costo dell’energia, passando per un sistema di certificazione europeo del riciclato. Un tentativo di salvare un settore industriale che rappresenta oltretutto un’eccellenza del nostro paese.
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