C’è qualcosa di profondamente anomalo in ciò che sta accadendo attorno a Mps, Mediobanca e Generali. Un’anomalia non giuridica, non economica, non industriale: un’anomalia istituzionale. Ed è forse la più pericolosa, perché non si presenta in forma plateale. Si manifesta, invece, come uno svuotamento strisciante delle prerogative proprietarie attraverso l’azione di un’indagine penale che, pur essendo legittima, sta producendo effetti ben oltre ciò che un’inchiesta dovrebbe generare prima di approdare a un quadro probatorio minimamente definito. È il rischio concreto di un esproprio giudiziario di fatto, non proclamato ma esercitato per via cautelare e attraverso l’arma più potente che il diritto conosca: il sospetto.
La vicenda che coinvolge Francesco Gaetano Caltagirone, Francesco Milleri e Luigi Lovaglio è nota. Le accuse della Procura non sono acqua fresca: aggiotaggio e false comunicazioni alla vigilanza. Ma ciò che sorprende è la distanza tra la costruzione accusatoria e il lavoro di indagine compiuto dalla Consob. L’autorità di vigilanza, nel documento inviato alla Procura e reso pubblico dal Sole 24 Ore, non si limita a escludere ogni elemento che comproverebbe l’esistenza del concerto; afferma con nettezza che le prove raccolte dimostrano che il concerto non esiste. Vero è che la Consob non dispone degli strumenti d’indagine propri della Procura, ma possiede una cultura in materia finanziaria inarrivabile per un pubblico ministero. Sicchè la sua opinione avrebbe dovuto orientare gli sguardi anche in quella direzione, invece è subito stata sepolta dal rumore di una parte della stampa che con leggerezza ha trasformato un’ipotesi di reato in una verità narrativa.
Ed è proprio qui che si inserisce il paradosso più inquietante. Non riuscendo a dimostrare con i mezzi ordinari ciò che ipotizza, la Procura allarga il perimetro dell’indagine ben oltre gli indagati, ricorrendo a strumenti che finiscono per colpire per via cautelare chi non è accusato di nulla nel tentativo di scoprire “chi sapeva” del presunto patto occulto. È la logica del sospetto che diventa metodo: se non trovo la prova, cerco l’eco; se non trovo il fatto, inseguo l’ombra. Una torsione dell’azione penale che ha come effetto indotto quello di alterare gli equilibri proprietari più di quanto potrebbe fare qualsiasi condotta effettivamente provata.
E il decreto di perquisizione accentua questa torsione: per struttura e contenuto, l’atto sembra costruito più per suggerire un racconto che per rappresentare una realtà consolidata. È tuttavia bastato a generare un effetto domino: gli azionisti di maggioranza, temendo che ogni decisione possa essere letta come reiterazione del reato ipotizzato, saranno probabilmente indotti a rallentare le loro facoltà proprietarie. Come non pensare che nel vuoto operativo così creato, non nascano equilibri instabili e potenzialmente pericolosi? Per esempio, a pagarne subito le conseguenze potrebbe essere la governance delle Generali.
C’è chi sostiene che da questa imprevista impasse il ceo Philippe Donnet esca rafforzato. È una lettura superficiale, priva di riscontri nella realtà operativa. Donnet si muove oggi in un contesto in cui ogni sua decisione può diventare un’arma a doppio taglio: se agisce nel solco del passato, rischia di essere accusato di scavalcare la volontà dei soci maggiori; se non agisce, rischia di essere accusato di inerzia in un momento particolarmente delicato. Altro che forza: è una posizione che costringe a evitare ogni passo troppo marcato, una spada di Damocle che non dovrebbe gravare sul capo di un gruppo assicurativo di dimensioni europee. La ritirata dall’affare Natixis non è una scelta industriale, è una scelta tattica che dovrebbe indurre qualche riflessione in chi ha proposto l’accordo: un segnale evidente di questa nuova fragilità. È il prezzo della prudenza, il sintomo di un clima che nessun sistema maturo può accettare: quello in cui il management teme di muoversi e gli azionisti temono di decidere.
Intanto Mediobanca si trova in mezzo a un’azione penale tutta da definire. A sua volta Mps, appena uscita da una lunghissima stagione di vulnerabilità, rischia di vedere compromessa la velocità necessaria alla sua stabilizzazione definitiva. E in questo scenario diventa inevitabile il coinvolgimento della Bce, che non può accettare che una banca sistemica venga trascinata in un limbo decisionale per ragioni estranee all’assetto prudenziale. Anche Ivass e Bankitalia non potranno restare a lungo in silenzio. Non per difendere gli indagati, ma per difendere l’ordine istituzionale. Esiste infatti un principio che vale più di ogni interpretazione giudiziaria: le competenze sono distribuite, non sovrapponibili. Se la magistratura invade i campi della vigilanza, la vigilanza perde forza. E se la vigilanza perde forza, a pagare è la stabilità del sistema.
La domanda da porsi, a questo punto, non è più tecnica ma politica. Può u una tempesta istituzionale, indebolita da un’incertezza che non dipende né dal mercato né dalle scelte strategiche, ma dal perimetro indefinito di un’indagine penale – senza misure interdittive, senza un quadro probatorio consolidato, senza un accertamento amministrativo di supporto – paralizzare tre snodi decisivi dell’economia del Paese? E se può farlo, chi garantisce che non lo farà di nuovo? Perché il vero rischio non è la colpevolezza o l’innocenza degli indagati; il vero rischio è che, domani, ogni ipotesi giudiziaria possa trasformarsi in un vincolo esterno per un settore delicato come la finanza. Un vincolo che non passa attraverso il Parlamento, né attraverso le autorità di vigilanza, ma attraverso la costruzione narrativa di un reato che deve ancora essere dimostrato.
Il mercato non aspetta, e sta già presentando il conto. I valori di Borsa cadono, le linee strategiche si raffreddano, la fiducia evapora. E tutto questo accade prima ancora che un giudice abbia aperto il fascicolo in aula. È la prova di quanto sia fragile il confine tra giustizia e potere. E di quanto sia facile, in Italia, trasformare un’ipotesi in un impedimento, un sospetto in un vincolo. Non è solo un problema giuridico: è un problema democratico. Occorre ristabilire i confini. Occorre farlo subito. La magistratura ha il suo ruolo, indispensabile; ma non può assumere compiti che non le competono. La vigilanza ha il suo ruolo, tecnico e imprescindibile; ma deve poterlo esercitare senza temere subalternità. La politica ha il suo ruolo, e sarebbe ora che lo esercitasse non solo in conferenza stampa, ma nei fatti. Perché quando l’economia viene frenata non da una legge, ma da un sospetto, il danno non è un effetto collaterale: è il cuore del problema. Si resta perciò basiti dal fatto che la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, invece di intervenire con tempestività sul tema indagine Mps-Mediobanca, ha convocato la Procura a fine febbraio. Fra tre mesi.
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