Sono 55 i Paesi e territori che, a oggi, hanno introdotto – almeno parzialmente – la cosiddetta “Global Minimum Tax”, il prelievo fiscale minimo del 15% sulle grandi multinazionali. Ma l’accordo raggiunto dal G7 a fine giugno, tra le montagne canadesi di Kananaskis, ha improvvisamente cambiato le carte in tavola: le multinazionali con casa madre negli Stati Uniti, incluse le big tech, saranno esentate dal nuovo tributo. Un’esclusione che, unita alla mancata adesione della Cina, mina le basi di un’intesa pensata per essere globale. Chi – come l’Italia – aveva già messo in moto la macchina attuativa, ora si ritrova in una posizione incerta.
Il percorso dell’Ocse e la promessa disattesa
L’iniziativa, promossa dall’Ocse, puntava a impedire alle grandi aziende (con ricavi superiori ai 750 milioni di euro) di trasferire profitti nei paradisi fiscali, introducendo un sistema multilivello di imposizione: domestica, integrativa e suppletiva. Dal 2021 oltre 140 Paesi avevano dato il proprio assenso, e le stime parlavano di un gettito globale aggiuntivo di circa 220 miliardi di dollari l’anno.
Tuttavia, l’implementazione si è rivelata a macchia di leopardo. L’Unione europea ha fatto da apripista con la direttiva 2022/2523: 22 dei 27 Stati membri l’hanno già recepita integralmente, mentre altri – come Lituania, Slovacchia, Malta, Lettonia ed Estonia – hanno scelto di rimandare o procedere con cautela.
In Italia, la tassa è stata inserita nel riassetto del sistema fiscale tramite il Decreto legislativo 209/2023, accompagnato da vari decreti attuativi.
Fuori dall’Ue, attuazione lenta e disomogenea
Nel resto del mondo, l’adozione della minimum tax è andata avanti più lentamente. Secondo un monitoraggio del Sole 24 Ore, all’inizio del 2024 erano solo 23 i Paesi non Ue che avevano avviato l’attuazione, seppur parziale. Nell’ultimo anno e mezzo si sono aggiunti altri 36 Stati: nove con normative in via di definizione, e 27 con misure legislative già adottate, anche se non sempre complete.
Tra questi figurano alcuni ritardatari dell’Ue (come Spagna, Grecia e Polonia), ma anche territori britannici d’oltremare (come Gibilterra e le Isole del Canale), Stati del Golfo (tra cui Qatar ed Emirati) e Paesi economicamente rilevanti come Brasile, Canada e Australia.
L’accordo del G7 cambia le regole del gioco
L’intesa raggiunta dal G7 rappresenta un punto di svolta. L’amministrazione Biden, inizialmente favorevole alla minimum tax, non era riuscita a farla approvare dal Congresso, ostacolata dai repubblicani. Con il ritorno di Donald Trump sulla scena politica e la sua netta opposizione alla tassa globale, gli Stati Uniti hanno ottenuto una clausola di esenzione per le proprie multinazionali, senza concedere concessioni in cambio e minacciando ritorsioni fiscali.
Il risultato? Uno scenario in rapida evoluzione, dove le imprese potrebbero scegliere di trasferire le proprie sedi negli Usa per godere del trattamento di favore, mentre l’Ue potrebbe trovarsi costretta a rivedere il proprio approccio, tra il rischio di nuovi dazi americani e lo svantaggio competitivo per le aziende europee.
Ritorno della competizione fiscale?
Non è escluso che altri Paesi seguano l’esempio americano, giustificando l’esenzione in virtù di sistemi fiscali domestici “equivalenti”. Alcuni Stati a bassa tassazione, intanto, stanno già ricalibrando le proprie imposte: è il caso di Barbados, dove la tassa minima si attiva solo se l’impresa rischia di subire prelievi aggiuntivi altrove. Il rischio è che la Global Minimum Tax venga svuotata nella sostanza, sebbene formalmente in vigore.
Prime crepe nell’Unione europea
Anche in Europa cominciano a emergere segnali di tensione. In Belgio la Corte costituzionale ha accolto un ricorso contro la componente suppletiva dell’imposta e ha rimandato la questione alla Corte di giustizia dell’Ue. Se la normativa venisse giudicata incompatibile con il diritto europeo, le conseguenze potrebbero estendersi anche ad altri Stati membri, minando ulteriormente la coesione sull’applicazione del nuovo regime fiscale.
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