«I cigni neri sono rari, ma il loro impatto è enorme e spesso sottovalutato. Soprattutto sono imprevedibili», scrive Nassim Nicholas Taleb nel suo libro Il Cigno Nero. Un’osservazione che potrebbe apparire banale, ma che meglio esprime l’essenza delle 350 pagine dell’opera che il matematico ed ex trader libanese consegnò alle stampe nel 2007. Descrive in sintesi l’incapacità umana di riconoscere l’importanza di eventi che non possiamo prevedere, e quanto questi scolpiscano la storia più di quelli ordinari. Sono accadimenti che portano devastazione e che irrompono sulla scena per dinamiche che sfuggono alla nostra comprensione lineare. E che ogni volta tentiamo di spiegare con retrospettive rassicuranti per dare un senso al caos, ma che non ci aiutano a sondare l’imponderabile. Si sono fatte supposizioni su come ebbe origine la scintilla che diede fuoco alle polveri della drammatica “crisi subprime” nel 2008, però nessuno può dire con esattezza come e quando quella scintilla prese vita. È l’imponderabile, che la mente umana non può prevedere.
Tuttavia, poiché l’esplosione si propaga più facilmente se il sistema è saturo di vulnerabilità – e non v’è dubbio che nel 2008 vi fosse un accumulo straordinario di rischi e di illusioni condivise – possiamo però cercare di capire se un certo contesto è favorevole affinché il cigno nero sprigioni tutta la sua carica distruttiva.
Perché evocarlo oggi? Perché viviamo un paradosso che non ha precedenti, quantomeno a memoria di chi scrive. Il fatto che le Borse inanellino record su record, che gli spread siano relativamente contenuti, che la volatilità sia tollerabile non può oscurare il fatto che viviamo in un contesto geopolitico e sistemico estremamente fragile: guerre in corso un po’ ovunque, transizione energetica instabile, debito globale record, crisi ambientale, tensioni commerciali e monetarie tra le superpotenze, sgretolamento dei blocchi nati su valori comuni: insomma, una sequenza di notizie potenzialmente destabilizzanti che in altri tempi avrebbero suggerito prudenza a chi opera sui mercati. Una dissonanza che è proprio il tipo di contesto in cui può maturare un cigno nero.
D’altro canto, ci viene fatto osservare, la forza delle aziende leader, alimentata da bilanci solidi e da una domanda ancora robusta, gioca un ruolo chiave. Le big tech, vere locomotive dell’economia digitale, brillano con utili in crescita e una capacità di innovazione che sembra senza limiti. Questo spiega in buona parte la resilienza degli indici azionari, soprattutto in un contesto in cui l’economia reale, anche a causa delle bizze tariffarie di un’amministrazione americana mai così volubile, manifesta segnali di rallentamento.
Ma davvero ci basta questo per sentirci tranquilli? Il conflitto in Ucraina resta una fonte di perenne instabilità. Le tensioni in Medio Oriente non sono affatto dissolte, e il rischio di escalation resta dietro l’angolo anche se negli ultimi giorni si è levato un vento nuovo. Non va poi dimenticato il contesto più ampio: l’inflazione che persiste, le politiche monetarie che dopo una fase tornata espansiva ora si fanno più restrittive. Per non dire della fragilità delle catene di approvvigionamento. E non va sottovalutata la precarietà di alcune economie emergenti. Paesi come Turchia o Argentina hanno bilanci pubblici fragili, debito estero elevato e riserve valutarie limitate. Una crisi finanziaria in uno di questi due mercati potrebbe generare una reazione a catena, amplificando il rischio sistemico e coinvolgendo anche i mercati sviluppati, attraverso l’effetto contagio.
La velocità con cui oggi circolano informazioni e capitali può infatti amplificare la portata di eventi inattesi, trasformando in crisi globali anche choc apparentemente circoscritti. Fa impressione vedere il dollaro in caduta a una velocità che non si registrava da 50 anni, e non certo per dinamiche virtuose vista l’improvvisa corsa alle coperture da parte delle imprese. Come desta perplessità che contemporaneamente Moody’s declassi i rating sovrani, mettendo sotto la lente macro-aree come Stati Uniti, Cina, Europa e Giappone, tutti con rapporto debito/Pil ben oltre le soglie storiche. E come non fremere all’idea che la somma dei debiti pubblici abbia scavallato quota 102 trilioni di dollari? Certo, dobbiamo pensare positivo, nel mondo c’è una montagna di liquidità in cerca di allocazione, ma non possiamo sottacere queste fragilità, un ambiente perfetto per il cigno nero che verrà.
Abbiamo imparato, troppo spesso a caro prezzo, che le crisi non si annunciano. Non suonano campanelli d’allarme, non marciano in divisa. Si infiltrano invece nei dogmi del nostro tempo. Nel 2008 fu il mito della casa di proprietà come bene infallibile. Oggi, potremmo essere accecati da un’altra illusione: quella che il denaro possa moltiplicarsi all’infinito. Le criptovalute, esplose come simbolo di libertà, si sono trasformate in un ecosistema opaco da migliaia di miliardi di dollari. Strumenti sempre più sofisticati, stablecoin agganciate a valute senza sottostante, piattaforme di finanza senza garanzie reali, derivati crittografici non regolati: un’economia parallela, senza paracadute. Eppure, banche, fondi e interi Stati iniziano a detenere attivi digitali nei loro bilanci. Se un cigno nero dovesse nascere qui, da una crisi di fiducia improvvisa, da un attacco informatico su larga scala, o da un collasso tecnico di una stablecoin sistemica, l’effetto domino attraverserebbe Borse, banche, valute tradizionali.
I risparmiatori, che oggi si muovono tra wallet e app senza intermediazione, potrebbero trasformarsi nel detonatore inconsapevole di una crisi che le autorità monetarie non saprebbero come arginare.
Ma il rischio non è solo tecnologico. È culturale. È l’eccessiva fiducia in un sistema che sembra aver dimenticato il significato di prudenza, in cui anche il debito pubblico sembra un problema rimandabile all’infinito, e la politica monetaria un giocattolo senza limiti.
Nessuno sa quando arriverà il prossimo cigno nero. Ma possiamo – dobbiamo – chiederci ogni giorno quali verità oggi indiscusse potrebbero domani rivelarsi false. Perché è lì, in quelle pieghe invisibili della fiducia collettiva, che si annidano le crepe della prossima crisi.
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