La mafia ha allungato i suoi tentacoli anche nelle organizzazioni sindacali, nei Caf e nelle cooperative, lanciando un’Opa ostile sul mondo del lavoro e sulla rappresentanza sindacale, proprio nel momento di maggiore debolezza di Cgil, Cisl e Uil. Lo ha fatto attraverso iscritti accusati da indagini della magistratura di aver spalancato le porte del sindacato alle cosche, gonfiando le liste con tessere false finanziate con firme apocrife sulle deleghe per la riscossione del contributo sindacale. Lo dimostrerebbero intercettazioni telefoniche e ambientali, pedinamenti e attività di osservazione.
Il principio di non colpevolezza vale per tutti, naturalmente. Un ex sindacalista Cgil di Genova e un suo collega della Cisl di Torino sono sospettati dai magistrati di essere i referenti dei clan, a Potenza un delegato Uil decideva chi assumere e chi no in una ditta di pulizie, da Milano a Napoli le mani delle mafie si sarebbero allungate sulla logistica, con scioperi e picchetti sindacali manipolati per estorcere favori dai grandi gruppi, agevolare le aziende a superare misure antimafia e interdittive e ad aggirare gli obblighi su indennità di malattia, assegni e altre spettanze. Mafia, camorra e ’ndrangheta fanno affari con il click day e il decreto Flussi, inondandoci di clandestini «legalizzati». I complici dei boss presentano domande di Reddito di cittadinanza e Reddito di emergenza Covid a favore di affiliati che non ne hanno diritto. Ci sono dipendenti pubblici che da sindacalisti sono stati pizzicati a trescare con colossi della grande distribuzione e politici locali. Una volta stanati, hanno patteggiato.
La magistratura ha ricostruito la strategia dei clan che si sono infiltrati nel settore della logistica e dell’edilizia, soprattutto attraverso alcuni consorzi di finte cooperative, società farlocche con cui triangolare un gioco illegale di intermediazioni (vere o finte) di manodopera mediante false fatturazioni e sfruttamento dei lavoratori, con profitti in nero per riciclare denaro e sostenere detenuti, latitanti e chi organizza spedizioni punitive contro i lavoratori «veri», in lotta per i propri diritti. «Tutti i supermercati dell’hinterland milanese sono in mano alla ’ndrangheta, idem i locali di divertimento dove vanno i vip», dice da sempre il procuratore di Napoli Nicola Gratteri.
Nel mirino dei pm della Liguria è finito Venanzio Maurici, sindacalista Cgil in pensione dal 2018, a cui il sindacato di Maurizio Landini ha prudenzialmente sospeso l’iscrizione in via cautelativa. Il sindacalista è il cognato di un soggetto considerato il capo ’ndrangheta, ha guidato il potente sindacato degli edili Fillea e la Filcams che rappresenta i lavoratori del commercio.
La magistratura genovese lo accusa di corruzione elettorale aggravata dall’articolo 416-bis, perché avrebbe raccolto voti in favore dell’associazione mafiosa.
«È importante che la magistratura vada sino in fondo e faccia chiarezza sulle responsabilità politiche e individuali», dice la Cgil. «Lo abbiamo sospeso appena ne siamo venuti a conoscenza, siamo un’organizzazione sindacale che nella sua storia ha diversi morti per mafia», ha ribadito il numero uno del sindacato rosso Landini, convinto che «ci sia un tentativo delle cosche mafiose di allargarsi soprattutto dove ci sono più soldi». Prova ne sia il buco di migliaia di euro di una cassa del comparto spettacolo, sempre in Campania.
Il caso più eclatante arriva dal Torinese, con l’inchiesta Factotum della Dda e della Guardia di Finanza che ha portato all’arresto di sei persone legate alla ’ndrangheta nella zona di Carmagnola, attraverso un pregiudicato finito nell’inchiesta Minotauro sulle cosche calabresi in Piemonte. Tra di loro c’era Domenico Ceravolo, dipendente del sindacato edili a Torino e dallo scorso 13 febbraio componente della segreteria provinciale, accusato di aver favorito la latitanza di un boss e di aver garantito con la sua busta paga il mutuo da 100mila euro della moglie di un affiliato. Tra i compiti di questa organizzazione, oltre alla «protezione» e al recupero crediti, anche la intermediazione di manodopera tra imprese del settore, operai, sindacati di categoria e cassa edile. Prima che i magistrati accendessero i riflettori su di loro nessuno poteva immaginare fino a che punto le mafie si siano infiltrate. La Cisl ne ha subito preso le distanze, le responsabilità del singolo non devono ricadere su tutto il sindacato, evidentemente, soprattutto in sindacati come quello più moderato, cresciuto più di altri per le sue posizioni molto più ragionevoli e diventato dunque più appetibile. Ma quando i casi si moltiplicano un problema c’è e non si può sottovalutare.
Qualche anno fa un rappresentante sindacale Uil venne arrestato assieme ad altre 37 persone nell’operazione Lucania Felix coordinata dalla dda di Potenza. Secondo l’allora Procuratore distrettuale, Francesco Curcio, l’uomo era «il braccio armato» del clan locale Martorano-Stefanutti, «riconosciuto» da mafia e ’ndrangheta, che avrebbe «addomesticato» la gestione dei dipendenti di una società di servizi, decidendo chi assumere e chi no per le pulizie del più importante ospedale della regione. Le imprese di pulizie o di trasporti gestite dalla mafia sono spesso di piccole e medie dimensioni, una forma di investimento che non li espone troppo alle mire degli inquirenti, operano in un mercato florido grazie all’ingente quantità di denaro da riciclare e arrivano a condizionarne l’attività perché lavorano «in perdita». Chi fa affari con queste coop e scopre legami pericolosi o fa spallucce o rischia la vita o si mette d’accordo. «Se i lavoratori continuano a scioperare e a rompere i coglioni, tu fai una brutta fine», racconta un sindacalista calabrese di una sigla minore, minacciato da un padroncino.
Ma anche l’edilizia rischia di essere una mammella a Napoli, con la complicità di alcuni Caf, migliaia di lavoratori edili si siano ritrovati iscritti ai sindacati, spesso tramite tessere consegnate in modo ingannevole o addirittura a loro insaputa, con trattenute fino a 200 euro ogni sei mesi, senza consenso e promesse ingannevoli. Si parla di almeno 5mila deleghe farlocche per la stessa sigla, spuntate dal nulla in una regione con pochi cantieri. Chi è finito vittima di questo sistema nel Napoletano avrebbe raccontato alla Finanza e ai magistrati di essere stato avvicinato al cantiere da un «tesseratore» che gli avrebbe proposto un «contributo primo ingresso». Con una firma si è ritrovato iscritto. Ad altri sarebbe stato chiesto l’Iban per inviare alcuni assegni. Ci sarebbero sigle sindacali spesso «scelte» dagli stessi datori, con iscrizioni forzate e consenso pilotato in cambio della «pace sociale» nei cantieri rispetto alle violazioni contrattuali e alla scarsa sicurezza. Uno spaccato inquietante, che vede una sorta di sindacato «giallo», di comodo, vietato dall’articolo 17 dello Statuto dei lavoratori gestito da personaggi su cui sembrano allungarsi i tentacoli della camorra e su cui alcune Procure del Mezzogiorno avrebbero acceso i riflettori. Anche a Reggio Calabria qualche spaventato operaio ci racconta che ci sarebbe una sigla sindacale dentro una delle più importanti fabbriche della Regione che sarebbe eterodiretta dalle cosche, con delegati che cercano iscritti e minacciano ritorsioni contro chi si rifiuta, dal cambio di turno improvviso alle ferie stravolte. Non sappiamo se la Procura reggina stia indagando o meno. Ma questi picchi di iscrizioni sarebbero visibili, a quanto ci risulta: se le segreterie nazionali non se ne accorgono è un problema di cui discutere, sia con la magistratura che con la politica. Altrimenti meglio evitare di dare lezioncine di economia. O peggio, di antimafia.
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