Il più esplicito è stato Klaas Knot, governatore della Banca centrale olandese. «L’Unione bancaria europea c’è – ha detto – ma purtroppo solo sulla carta. Non abbiamo uno schema assicurativo comune, mentre soltanto se riusciremo ad avere banche paneuropee avremo anche una Unione bancaria vera e non più solo sulla carta». E ancora: «Abbiamo sì una valuta comune, l’euro, ma nelle politiche monetarie ed economiche dei vari paesi non esiste coordinamento codificato». Più trattenuto Francois Villeroy de Galhau, governatore della Banca di Francia. «Negli ultimi tre mesi i Paesi europei si sono svegliati sulla Difesa e hanno annunciato di voler mettere in campo delle risorse – ha precisato Villeroy – ma se guardiamo a economia e finanza avviene tutto troppo lentamente. Anche se il momento è ora, altrimenti perderemo molti treni». Il meno diretto è stato José Luis Escrivà, governatore della Banca di Spagna e membro del direttivo Bce. «Assistiamo a un processo di concentrazione delle banche all’interno dei confini degli Stati membri – ha osservato Escrivà – ma ci sono poche operazioni transfrontaliere. E troppo diverse sono le normative nazionali per pensare a una Unione imminente». Motivazione tecnica, quest’ultima, che però ancora non risponde alla domanda: perché, dopo dieci anni di discussioni, di spinte e controspinte, di road map sepolte nel limbo delle consultazioni, ancora non si è arrivati a una piattaforma comune per avviare la nascita dell’Unione bancaria europea.
Sollecitati sull’assenza di una volontà politica che possa dare vita a una struttura così importante per il rafforzamento dell’Unione, i tre governatori citati hanno in un modo o nell’altro glissato senza dare una risposta netta. Eppure l’evento di cui erano ospiti – lo Young Factor 2025 organizzato dall’Osservatorio dei Giovani Editori fondato da Andrea Ceccherini – era un’occasione forse unica per un confronto (insieme ad altri tre governatori europei presenti all’evento) finalizzato a dare nuova spinta alla causa. Vista l’importanza del progetto, la sua realizzazione è senza dubbio ambita dai banchieri centrali, non fosse altro che per il fatto che renderebbe meno ansioso il loro compito di custodi della stabilità. Basti ricordare che una normativa unica consentirebbe di gestire le crisi bancarie con fondi comuni, prima di usare soldi pubblici dei singoli Paesi; porterebbe maggiore stabilità nel sistema insieme a una garanzia terza sui depositi; darebbe vita a una tutela eguale per tutti i risparmiatori europei; infine aiuterebbe, grazie a una maggiore resilienza del sistema finanziario, ad evitare il contagio se una singola banca dovesse fallire: in una parola, avremmo meno costi e più tutele per i cittadini. E soprattutto più forza per l’euro. Se poi accanto all’Unione bancaria si compisse il miracolo del Mercato unico dei capitali, allora sì – e solo in questo caso – l’euro potrebbe aspirare un giorno a diventare moneta di riserva globale accanto al dollaro.
Allora perché è tutto fermo? Non c’è un modo elegante per dirlo: il sogno europeo affonda nei caveau di Berlino e Parigi. Sono i governi di Francia e Germania i principali ostacoli al completamento dell’architettura finanziaria dell’Eurozona. Berlino teme di dover condividere le conseguenze di fallimenti bancari di altri partner, senza avere voce in capitolo sulle politiche di gestione del rischio di quei Paesi. Un paradosso, se si pensa alle condizioni di salute dei suoi due principali istituti: Deutsche Bank e Commerzbank. A sua volta, Parigi temporeggia, oscillando tra ambizioni strategiche europee e timori di cedere sovranità. Le dichiarazioni di Emmanuel Macron al Forum Economico di Davos, durante il quale ha minacciato di procedere con una cooperazione rafforzata se l’Unione non fosse riuscita a fare progressi su questo fronte, sono rimaste lettera morta: parole, soltanto parole.
Nel frattempo, Bruxelles si rifugia nel tecnicismo, nascondendo l’immobilismo dietro rapporti, gruppi di lavoro e dibattiti infiniti che non producono risultati concreti. Così le promesse della Capital Markets Union si sono rivelate un esercizio di marketing istituzionale: molta retorica, pochissima sostanza.
Eppure il prezzo dell’inazione è evidente. Le imprese europee, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni, soffrono di un accesso al credito diseguale e spesso penalizzante rispetto ai competitor americani e asiatici. Gli investitori continuano a confrontarsi con regole frammentate e mercati poco liquidi. E in tre Paesi (Italia, Spagna, Germania) il riposizionamento del sistema bancario sembra diventata una meta inarrivabile per scarsa chiarezza delle norme nazionali. La verità è che l’Europa ha smesso di credere in se stessa come progetto politico, e l’immobilismo sulla governance finanziaria è solo il sintomo più evidente di questa crisi di visione. L’apparente compattezza sul fronte della difesa a tutela dei confini, frenata da paletti sempre nuovi, somiglia a una battaglia di retroguardia ispirata dall’emergenza che però non guarda avanti. Viene quasi il sospetto che l’inerzia della Commissione non sia più una questione di lentezza burocratica: è ormai complicità attiva nel sabotaggio dell’ambizione europea.
Se Francia e Germania non intendono più essere motori del processo di integrazione – e tutto fa pensare che non lo vogliano – allora Bruxelles deve trovare il coraggio di guardare altrove, mettendo in discussione l’asse franco-tedesco come dogma intoccabile. Serve una nuova leadership politica, capace di porre il completamento dell’Unione bancaria e del Mercato dei Capitali al centro dell’agenda europea. Non come obiettivo tecnico, ma come scelta strategica per l’autonomia economica e la sovranità del continente. Finché ciò non accadrà, l’Unione rimarrà un gigante normativo con piedi d’argilla, perfetto bersaglio per ogni tempesta.
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