Criptovalute e intelligenza artificiale: da un lato l’avanguardia degli scambi economici globali. Dall’altro, la potenza che ha sfondato i confini entro i quali intendevamo i concetti di lavoro e produzione. Strette tra loro da intricatissimi lacci. Il più teso, quello della forza che serve a generarle: la potenza di calcolo. Tecnologie sorelle e speculari, come mette in luce la recente notizia della collaborazione tra Circle (una delle principali emittenti di stablecoin al mondo) e OpenMind (azienda della Silicon Valley che ha recentemente ottenuto un finanziamento da 20 milioni per lo sviluppo di robot androidi) per il lancio di un nuovo sistema di micro-pagamenti tra agenti di intelligenza artificiale. Siamo così spettatori della nascita di una nuova economia: «l’economia delle macchine», in cui due robot agentici – sistemi intelligenti autonomi che non necessitano di input umano per compiere azioni – possono scambiarsi denaro, grazie alle valute digitali, senza l’intermediazione bancaria.
In questa corsa, la Cina sembra aver ingranato la sesta. E l’Occidente? Mario Draghi all’inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico di Milano ha parlato chiaro: «Se non colmiamo questo divario e non adotteremo queste tecnologie sul larga scala l’Europa rischia un futuro di stagnazione con tutte le sue conseguenze», ha detto riferendosi allo sviluppo dei modelli di intelligenza artificiale. Ma andiamo con ordine. Nel settembre 2021, la Banca Popolare Cinese aveva vietato tutte le transazioni in criptovalute per frenare la fuga di capitali. Secondo il World Economic Forum, tra il 2019 e il 2020 dall’Asia orientale erano fuoriusciti oltre 50 miliardi di dollari in cripto dalle tasche di investitori locali. C’erano anche delle motivazioni ambientali al divieto: al pari dei data center che fanno funzionare gli ingranaggi dell’intelligenza artificiale, anche il mining – il processo con cui reti di computer creano e immettono nel mercato nuove criptovalute – comporta un enorme dispendio di energia. Tanto che dal 2017 al 2024 il consumo energetico globale dei data center ha visto una crescita del 12 per cento annuo secondo, come riporta l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea).
Prima del divieto, le miniere di valute digitali cinesi erano responsabili di più della metà dell’offerta globale di monete virtuali. Dopo il blocco erano state smantellate e i minatori si erano dispersi in Kazakistan, Russia e Stati Uniti. Oggi la realtà è molto diversa: il settore non solo è sopravvissuto, ma ha ripreso vigore. La Cina è tra i principali centri del mining globale, soprattutto in alcune province, dove l’elettricità costa poco e stanno spuntando come funghi nuovi data center. Secondo un rapporto di Reuters e le stime di CryptoQuant, la Cina sta riconquistando un ruolo di primo piano nel mining di Bitcoin. I minatori cinesi contribuiscono per il 14-20% alla potenza di calcolo totale impegnata per estrarlo. Il ritrovato vigore del Dragone coincide con i massimi storici raggiunti dalla regina delle cripto in ottobre – quando ha sfondato i 126 mila – favoriti anche dalle politiche del presidente Usa Donald Trump, volte ad accrescere gli scambi in monete virtuali, come il Genius Act. Così il processo estrattivo cripto è diventato sempre più redditizio, anche se nelle ultime settimane – lo ricordiamo – il Bitcoin ha incassato un tracollo, con perdite sopra il 30 per cento.
Sul fronte dell’intelligenza artificiale, la Cina ha superato gli Stati Uniti nel mercato dei modelli aperti. La Repubblica popolare domina il mercato globale dei servizi IA open source, cioè liberamente utilizzabili senza pagare, modificabili e integrabili. Secondo uno studio del Mit – ripreso, tra gli altri, anche dal Financial Times – la quota totale di download dei nuovi modelli open source cinesi è salita al 17 per cento nell’ultimo anno, superando il 15,8 per cento di quelli collezionati dalle big americane. E la crescita è trainata da DeepSeek e Qwen (Alibaba): si tratta della prima volta che le aziende cinesi superano le controparti statunitensi. Tra l’altro è da tempo che conosciamo un principio fondamentale dell’IA: la sua capacità di ragionamento cresce con le informazioni che noi le forniamo. Quindi più la utilizziamo, più diventa brava a replicare i nostri processi cognitivi. Mentre OpenAI, Google e Anthropic scelgono di precludere le loro versioni migliori agli utenti non paganti, i colossi cinesi li hanno aperti, in modo che tutto il mondo partecipi al loro miglioramento. DeepSeek aveva iniziato a rilasciare modelli open source già nel novembre 2023, con DeepSeek Coder, per poi proseguire nel 2024 con una serie di aggiornamenti culminati nel gennaio 2025 con il debutto di R1, un modello creato con risorse computazionali molto ridotte, capace di competere con i sistemi statunitensi più avanzati. Nel giro di poche settimane era diventata l’app di IA più scaricata, superando ChatGpt. Ma c’è di più: Martin Casado, partner di Andreessen Horowitz, uno dei più grandi fondi di venture capital della Silicon Valley, in un’intervista pubblicata dal settimanale britannico The Economist ha dichiarato che l’80 per cento di quel 20-30 per cento di startup statunitensi che utilizzano modelli di intelligenza artificiale a codice aperto si affida a strumenti sviluppati in Cina.
Così si ribaltano gli equilibri globali: mentre gli Stati Uniti restringono l’accesso ai loro modelli migliori (le versioni premium di ChatGpt, Perplexity & Co. sono tutte a pagamento tramite abbonamento mensile), la Cina offre al mondo le proprie innovazioni, erodendo pezzo per pezzo il primato Usa. L’Europa, al solito, resta a guardare.
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