Nonostante tutti i Paesi membri dell’Unione europea abbiano adottato norme sul Golden Power – e a quanto è dato sapere molti vi fanno spesso ricorso anche con suggestive variazioni sul tema (si veda il caso Spagna) -, in Italia si grida allo scandalo per come viene applicato in relazione alla scalata Unicredit-Banco Bpm. È però singolare che le critiche si facciano largo dopo che la legge, approvata da gran parte dell’arco parlamentare, è in vigore da 12 anni e abbia avuto numerose applicazioni. Ancor più singolare è che si chieda a Bruxelles di stabilire i limiti della sicurezza nazionale di un Paese membro, come se la Commissione avesse il potere di modificare una norma sovrana che lei stessa ha peraltro validato. Una gran confusione, che si aggiunge al caos generato da un risiko che comincia a mostrare i suoi effetti destabilizzanti sul sistema.
Ma riavvolgiamo il nastro per un breve tratto, e ripartiamo dalle prescrizioni inflitte dal governo alla banca guidata da Andrea Orcel in forza del Golden Power. Il provvedimento impone una serie di condizioni che spaziano dalla cessazione entro nove mesi delle attività in Russia, alla conservazione per cinque anni della quota attuale degli investimenti di Anima Holding in titoli italiani, fino al mantenimento, sempre per cinque anni, del rapporto impieghi-depositi praticato dai due istituti di credito. Sono vincoli che incidono in profondità sul potenziale business del gruppo bancario. E dunque Orcel, che vede sfumare gran parte dei motivi della scalata, protestando e reagendo ha fatto il suo, né più né meno di ciò che avrebbe fatto chiunque nella sua posizione. Tuttavia, anche il ministro Giancarlo Giorgetti ha fatto il suo, attivando il Golden Power nella convinzione che senza le limitazioni prescritte verrebbe in qualche modo minata la sicurezza dello Stato. E qui sta il punto: a quale ipotetica minaccia si riferisce Giorgetti, che Orcel non vede, diversa dalle suggestioni in materia di difesa dei confini e di ordine pubblico? Lo ha spiegato con ammirevole sintesi il ceo di Intesa SanPaolo, Carlo Messina, dal palco del Congresso Fabi.
«Il tema è il risparmio – dice Messina – ed è giusto attivare la legge sul Golden Power perché risparmio vuole dire indipendenza nazionale, sicurezza nazionale. Uno Stato è credibile e rispettato anche per la sicurezza economica che leva a barriera di fronte a ogni tipo di aggressione. Intesa Sanpaolo, con il suo trilione e 400 miliardi di risparmi dei suoi clienti, è essa stessa un tema di sicurezza nazionale. Guai se qualcuno si mettesse in testa di spostare all’estero anche un solo euro». Rincara il sottosegretario Federico Freni nell’intervista che Moneta pubblica a pagina 4: «Basta scandalizzarsi perché abbiamo attivato il Golden Power, è il risparmio che va difeso prima di ogni cosa, non solo a tutela di chi lo ha sudato, ma anche a garanzia dello Stato».
E si capisce, non è forse il risparmio il vero protagonista del successo del nuovo Btp Italia collocato dal Tesoro? Più italiani acquistano titoli del debito pubblico, sostituendosi agli investitori stranieri, più i mercati ci considerano e ci rispettano. È grazie anche a ciò se le agenzie di rating migliorano di mese in mese il giudizio sull’Italia. E se è vero che il voto positivo si fonda sul maggior rigore con cui vengono gestiti i conti pubblici, prova ne sia lo spread che ha rotto stabilmente quota 100, una parte rilevante è merito del fatto che in meno di tre anni la quota di titoli nelle mani dei risparmiatori italiani è balzata dal 7,7% al 15,1%: 210 miliardi che hanno cambiato bandiera rendendo più solido il Paese di fronte a potenziali attacchi esterni come accadde nel decennio scorso. Per chi non l’avesse colto, ciò spiega perché il ministro Giorgetti voglia difendere con le unghie e con i denti un flusso che può solo migliorare, se tenuto al riparo da manovre che in potenza possono frenarlo o addirittura ridurlo.
D’altro canto, l’affare Generali-Natixis, presentato all’annuncio come la cornucopia dell’abbondanza, via via si è rivelato per quel che è realmente, ovvero il tentativo di smantellare la capacità decisionale della principale cassaforte assicurativa nazionale spostando fuori dai confini la cabina di regia su come impiegare le centinaia di miliardi che le hanno affidato i risparmiatori italiani. Ma ciò che ha reso più guardingo il governo sono alcune coincidenze che, rilette con il senno di poi, paiono avere ben poco della casualità. Per esempio il convegno a porte chiuse per la riforma del Golden Power organizzato nell’autunno scorso da Mediobanca, durante il quale la norma è stata fortemente criticata per «l’ispirazione autarchica, dettata da sovranismo economico» (Sabino Cassese) e dunque meritevole di profonda riforma.
Qual era lo scopo del consesso, oltre a celebrare il ricordo di Ariberto Mignoli? Azzardiamo: convincere il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, presente all’incontro come studioso e come esponente del governo, a perorare la causa della riforma. Che però si è rivelato un buco nell’acqua, perché in 8 punti mirabilmente argomentati Mantovano ha sgretolato gran parte delle critiche alla norma.
Solo uno scambio disinteressato tra studiosi della materia, finalizzato a rendere più equilibrata una norma giudicata imperfetta? Sarebbe lodevole se così fosse, ma sono le coincidenze che alzano ombre. Osservare le date: il convegno si svolge l’8 novembre e la prima fuga di notizie sull’affare Generali-Natixis avviene tra il 24 e il 25 novembre. E poiché fino a prova contraria chi comanda in Generali è Mediobanca, come non pensare all’occasione strumentale? Insomma, ci hanno provato ed è andata male: l’affare Generali-Natixis verrà giudicato dal governo ricorrendo a un Golden Power non riformato. A meno di informazioni radicalmente nuove, si può già intuire il destino dell’operazione.
Di fronte a ciò, perché stupirsi della mano pesante usata riguardo alla scalata di Unicredit che, per quanto sia tutta un’altra storia rispetto all’affare Natixis, presenta angoli dubbi, come l’esposizione in Russia o l’eccesso di finanziarizzazione dell’istituto, che possono accrescere la diffidenza verso i progetti di sviluppo dichiarati. E siccome le valutazioni del governo sulla sicurezza interna sono insindacabili, come dimostrano le sentenze del Tar e del Consiglio di Stato nel caso Verisem-Syngenta, allo stato viene difficile immaginare l’attenuazione delle prescrizioni. Soprattutto se, come sembra di capire, ancora oggi Unicredit si rifiuta di consegnare alla procedura parte della documentazione richiesta per una valutazione più compiuta dell’operazione. Certo, se dovesse emergere che nel fissare i paletti la componente “processo alle intenzioni” ha prevalso, sarebbe grave. Per questo è importante che l’azione di monitoraggio in corso presso il ministero dell’Economia sulle osservazioni giunte da Unicredit e da Banco Bpm faccia estrema chiarezza, onde fugare anche il minimo sospetto di personalismi o questioni in sospeso: se si domanda rigore è giusto pretendere che le risposte siano guidate da altrettanto rigore.
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