Da vittime della mafia rurale a terreno di caccia dei boss. Eccola, la triste parabola del sindacato italiano, colpevole di non aver mai voluto una dignità giuridica a causa della non attuazione dei commi 2, 3 e 4 dell’articolo 39 della Costituzione «che li legittima al comma 1, per evitare l’errore dei vecchi sindacati fascisti», dissero i padri costituenti. Le vicende che raccontiamo, nel rispetto della presunzione d’innocenza, offrono uno spaccato ancora tutto da verificare. Ma è opportuno parlarne per comprendere bene le modalità di infiltrazioni, abbastanza simili da Nord a Sud.
Basta un iscritto capace di tessere relazioni con i suoi colleghi: l’enorme capacità economica delle mafie consente di scalare le organizzazioni territoriali a colpi di tessere, dove non possono le lusinghe economiche interviene la forza, la violenza e le intimidazioni. Poi c’è la questione dei rapporti con le aziende. Un sindacalista corrotto e di comodo che parla a nome di una sigla nazionale fa la fortuna di tanti datori di lavoro spregiudicati che ne approfittano per azzerare le condizioni di sicurezza nei posti di lavoro e tacitare il dissenso. L’infiltrazione scoperta grazie alle tante indagini della magistratura è avvenuta anche per colpa anche della scarsa trasparenza del sindacato, nelle cui pieghe qualche furbetto si è infilato con estrema facilità.
Privilegi e opacità
Il potere senza trasparenza genera mostri: non c’è chiarezza sui fondi che ricevono, niente bilanci, come una bocciofila che però riceve soldi dalle buste paga, circa l’1% della retribuzione annua dei lavoratori attivi e lo 0,3-0,5% degli assegni dei pensionati. La torta a spanne si aggira a due miliardi l’anno. Soldi che dovrebbero servire per organizzare manifestazioni e scioperi, presidiare i fondi pensione gestiti dalle banche, gestire i rapporti tra lavoratori e aziende anche indipendentemente dagli iscritti, come garantisce alla Trimurti lo Statuto dei lavoratori. Privilegi che da tempo non hanno lasciato indifferenti i clan. Sono lontani i tempi di Portella della Ginestra, quando undici tra braccianti, contadini, donne e bambini il Primo Maggio del 1947 furono ammazzati perché protestavano contro il controllo mafioso delle terre siciliane.
Non basta la contrarietà al Ponte sullo Stretto e ai posti di lavoro che genera, ufficialmente per paura delle infiltrazioni mafiose, a migliorare la reputazione di un’organizzazione ormai in disarmo e lontana anni luce dai veri interessi dei lavoratori, come conferma la contrarietà al disegno di legge Partecipazione sulla governance aziendale aperta ai dipendenti. E la clamorosa sconfitta ai referendum sul lavoro segna anche uno scollamento tra le istanze dei lavoratori e le battaglie sindacali. Oggi una parte cospicua del sindacato come la Cgil si trova suo malgrado vittima di una mafia che vorrebbe combattere impedendo infrastrutture come il Ponte, capaci di generare Pil e di rilanciare un territorio riportando la presenza massiccia dello Stato proprio dentro i cantieri. Rifiutare questo approccio è un comportamento miope, di fronte a una criminalità organizzata talmente potente e subdola da infiltrarsi anche nelle associazioni che sulla carta dovrebbero tutelare gli interessi dei lavoratori e degli immigrati regolari. Mentre il sindacato si è anche schiantato sul referendum per la cittadinanza accelerata agli stranieri, finito in un clamoroso flop costato centinaia di milioni sottratti ai lavoratori, nel Mezzogiorno il sistema dei flussi regolari d’ingresso – come aveva denunciato alla Procura nazionale antimafia l’anno scorso il premier Giorgia Meloni – è ormai diventato terreno di caccia dei boss della criminalità organizzata, di Caf e di professionisti compiacenti e dei troppi imprenditori spregiudicati della borghesia mafiosa, come dimostra la recente inchiesta della Procura di Napoli che ha svelato un meccanismo ai danni dei migranti, costretti a pagare 10mila euro per domande di sanatoria o ricongiungimento risultate farlocche.
E questo è un danno vero per chi vuole regolarmente assumere operai nel settore dell’edilizia o braccianti in piccole aziende agricole per sostenere la filiera campana e di tutto il Sud, creando lavoro vero. Quello che crea ricchezza e sviluppo e che limita la migrazione di forza lavoro verso il Nord. Una delle precondizioni per un sistema equo che i sindacati invece sognano di costruire a colpi di slogan vuoti.
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