Contrariamente alle attese, ad aprile l’inflazione americana ha dato prova di essere ancora sotto controllo. Nonostante il clima di forte incertezza, l’indice dei prezzi al consumo è salito solo dello 0,2% rispetto a marzo, quando invece era sceso dello 0,1% su base mensile. Ma l’incremento dell’ultimo anno è stato ugualmente limitato al 2,3%. Sicché le preoccupazioni sull’acuirsi dello scontro tra Donald Trump e Federal Reserve, che avrebbe certamente prodotto effetti su Wall Street e a catena sul resto del mondo, al momento sembrano sopite o quantomeno rinviate nel tempo.
Intanto le Borse hanno recuperato tutto quanto avevano perduto nella settimana del “Liberation Day“ americano, e addirittura ora registrano nuovi record storici. Soprattutto quelle europee che, ad eccezione di Parigi per i noti problemi interni, oggi veleggiano con guadagni da inizio anno non lontani dal 20 per cento. Tutto finito dunque? Possiamo affermare che si è trattato di un colossale equivoco? Chi lo pensa è troppo giovane di esperienze vissute oppure sottovaluta lo sconquasso che l’annuncio della guerra dei dazi ha provocato nel sistema globale con effetti sul lungo periodo ancora da valutare.
Senza dubbio sul rapido recupero dei mercati finanziari ha inciso la retromarcia di Trump – perché di questo si tratta – culminata nell’accordo con la Cina che, salvo per i dazi sul fentanyl (mantenuti giusto per salvare la faccia al presidente americano), ha di fatto riportato le lancette dell’orologio a prima del 2 aprile. Ma all’euforia dei mercati ha contribuito non poco anche la convinzione, maturata nelle settimane seguite al crash, che la realtà degli scaffali (americani) e dei sistemi produttivi (cinesi) è molto più forte di qualsiasi dichiarazione belligerante sul fronte commerciale. Ma come si è potuto pensare che due economie così interconnesse (Cina e America si scambiano oltre 800 miliardi di dollari l’anno) potessero funzionare autonomamente così, con un semplice schiocco di dita di colui che viene considerato – ma forse è il caso di rivedere questa definizione – l’uomo più potente del mondo?
Non dubitiamo che nelle ambizioni di Trump ci sia un gran desiderio di tornare a una prospettiva di industrializzazione autarchica, secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero potuto prescindere dal «profittatore» cinese e da altri «parassiti». Ma quando una settimana fa il segretario al Tesoro Scott Bessent ha dichiarato esplicitamente che «non c’è intenzione di disaccoppiare le due economie», si è capito che la penna era stata tolta dalle mani del presidente tornato nel frattempo a occuparsi, ci si augura più proficuamente, di geopolitica invece che di economia.
Affermare che le lancette dell’orologio si sono riposizionate a prima del 2 aprile non vuole però dire che le condizioni degli scambi globali si sono normalizzate. Al contrario, un po’ tutti i Paesi stanno vivacchiando in una situazione di mezzo in attesa che con Washington si giunga a una ridefinizione degli accordi, sebbene appaia sempre più chiaro che ci vorrà del tempo, ben oltre i 90 giorni graziosamente concessi da Trump quando ha cominciato a capire in quale pantano si era infilato.
Ma guai a pensare che, ove mai si giungesse a una definizione numerica dei dazi, tutto finirà lì.
Ciò vale a maggior ragione per l’Europa, mai così vicina a progettare una sua rifondazione su basi rinnovate e mai così lontana dal realizzarla, tanto è divisa, fragile e aggredita da personalismi di una politica che si ostina a vivere di se stessa e dei propri interessi particolari. Si resta basiti dalla modesta reazione dei maggiorenti di Bruxelles seguita alle parole di Mario Draghi: «Lo choc politico proveniente dagli Stati Uniti è enorme. Per l’Europa nulla sarà più come prima», ha detto l’ex premier. Ma nessuno ha battuto ciglio. La verità è che già prima degli sconvolgimenti tariffari il clima nell’Unione stava peggiorando; gli annunci a ripetizione di Trump sono il punto di rottura che mancava per entrare nella fase d’emergenza. Noi la pensiamo come Draghi, che definisce un azzardo immaginare che gli scambi commerciali tra Europa e Stati Uniti tornino come prima dopo un così grave strappo unilaterale delle relazioni.
Non sorprende perciò che molti analisti finanziari, di fronte alla de-escalation (o presunta tale) delle tensioni, restino prudenti sui trend di Borsa mentre non pochi grandi gruppi industriali dichiarino che, allo stato, non sono in grado di produrre previsioni a medio termine credibili sul loro business. Quanto a Piazza Affari e alla formidabile performance realizzata dall’indice dall’inizio dell’anno (+18%) in sintonia con le migliori Borse europee, si disilluda chi qualche giorno fa raccontava di un mercato milanese finalmente libero dallo stigma di cenerentola dell’Unione, sempre primo a cadere e sempre ultimo a riprendersi. Senza la raffica di Opa e Ops che ormai coinvolge metà del sistema bancario quotato (140 miliardi la capitalizzazione dei soggetti in manovra su 900 miliardi del totale), oggi gareggeremmo con Parigi per il penultimo posto in classifica.
Probabilmente tra i risparmiatori italiani non c’è ancora una cultura adeguata che porti ad apprezzare l’investimento in azioni più un’opportunità che un rischio. Occhio alle bolle.
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