Leader forte, valuta debole. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha prodotto conseguenze economiche per certi versi inaspettate. O quantomeno controintuitive. Alzi la mano chi, alla vigilia della rivincita elettorale del tycoon repubblicano, avrebbe scommesso su una netta reazione al ribasso del dollaro, principe delle riserve valutarie, indebolitosi di oltre l’8% da inizio anno rispetto al paniere costituito dalle altre maggiori valute. In un contesto già segnato da una forte inflazione e dalle incertezze dovute al quadro geopolitico, a svalutare il biglietto verde sono state proprio le politiche della nuova amministrazione americana, tra svolte protezionistiche e minacce di pesanti dazi sulle importazioni negli Stati Uniti. Risultato? Il dollaro ha visto vacillare il proprio status di valuta di riserva globale: il peso della moneta americana nelle riserve valutarie globali è ora del 58%, il minimo dal lontano 1994.
Il gigante fragile
«Il mercato si è assestato su un posizionamento verso il lato negativo del dollaro, perché l’aspettativa è che le politiche di Trump stiano minando il valore della valuta americana come bene rifugio. I veri effetti di determinate scelte li vedremo tuttavia nel lungo termine, dal momento che anche i cambiamenti sui cosiddetti asset riserva avvengono sulla distanza», spiega a Moneta Francesco Pesole, Fx strategist di Ing, evidenziando però come l’interesse degli investitori istituzionali e privati si stia già adesso orientando altrove. A crescere sono in particolare l’euro, il franco svizzero e lo yen giapponese. «Si tratta di valute con una certa liquidità, caratteristica che infonde sicurezza in momenti di incertezza come quello attuale», prosegue l’analista. Avviso ai navigati: a trarre il maggiore vantaggio dall’attuale debolezza del dollaro dovrebbe essere proprio la valuta europea, al netto però di alcuni limiti “strutturali” che la riguardano.
«L’Europa – ricorda infatti Pesole – non emette prodotti di debito comunitario e questo ne limita la liquidità. Se l’Eurozona cominciasse invece a farlo in maniera continuativa, e non solo sporadicamente come avvenuto con il Recovery Fund, la nostra valuta avrebbe un’ulteriore spinta». A ogni modo, le attese prospettano un perdurare dell’affanno del biglietto verde. Secondo le stime prudenziali di Ing, a fine 2026 il tasso di cambio tra euro e dollaro dovrebbe salire ancora, attestandosi a 1,15; la divisa statunitense dovrebbe deprezzarsi ulteriormente anche rispetto allo yen, con il valore di cambio visto scendere a 138, rispetto all’attuale quota 145. «Il Paese del Sol Levante – annota tuttavia l’analista – esporta molto e quindi non ha simpatia per una moneta eccessivamente forte, oltre ad avere una delle popolazioni più vecchie del mondo e un debito pubblico tra i più alti», superiore al 250% del Pil.
Chi ha stime ben più nette sulla traiettoria discendente della valuta a stelle e strisce è invece Morgan Stanley, che nelle sue previsioni di metà anno indica il cambio tra euro e dollaro balzare fino a 1,25 nei prossimi dodici mesi a causa del calo di attrattività del dollaro come bene rifugio, cui si aggiungono fattori critici quali il rallentamento della crescita Usa e la convergenza dei tassi d’interesse con quelli di altri paesi G10. «Nonostante le incertezze macro e politiche – annota però la casa d’affari newyorkese – gli asset denominati in dollari (azioni e Treasury) restano interessanti, anche grazie alla solidità strutturale del mercato Usa».
Oro e argento brillano
Intanto, a irrobustirsi a spese del dollaro è sicuramente l’oro, bene rifugio per eccellenza, la cui percentuale nelle riserve estere globali è arrivata attorno al 20 per cento. Il metallo giallo ha letteralmente imboccato la rampa di lancio e al picco della crisi dei dazi ha toccato la barriera psicologica dei 3.500 dollari l’oncia. Tra gli analisti c’è chi lo vede spingersi nei prossimi mesi ancora più in alto: le ultime stime di Goldman Sachs sono di 3.880 dollari entro fine anno. Bene anche l’argento, al netto di una leggera flessione al ribasso dell’ultima settimana. Spaziando dagli orologi di lusso ai francobolli da collezione, Moneta ha di recente acceso i riflettori anche su una serie di asset rifugio alternativi che danno il polso di un contesto economico attraversato da profondi cambiamenti. Tornando alle valute più solide, non va poi sottovalutata la crescita dello yuan cinese, spina nel fianco per un’America che tenta di arginare l’espansionismo economico e commerciale di Pechino. «Molti Paesi dell’area Brics stanno iniziando ad accumulare sempre più questa valuta, secondo una precisa strategia geopolitica promossa dal governo cinese. Lo yuan può certamente approfittare dall’attuale debolezza della moneta americana», illustra ancora Pesole.
Mentre il trono del dollaro vacilla, molti investitori hanno diversificato il loro portafoglio puntando sulle criptovalute: lo stesso presidente Usa ha aperto alle opportunità offerte dal settore e ha inserito le monete digitali nella strategia economica americana per affrontare il debito pubblico. Nella prospettiva ad ampio raggio che gli analisti suggeriscono come chiave di lettura su ciò che sta avvenendo, risulta però difficile catalogare il bitcoin come un vero e proprio bene rifugio. «Affrontare la volatilità del dollaro affidandosi alle criptovalute, che sono altrettanto soggette a fluttuazioni repentine, è quasi un controsenso».
Eppure, complice anche la propensione al rischio sui mercati, nelle ultime settimane è emersa una tendenza abbastanza forte tra gli Etf, con afflussi per 9 miliardi di dollari su quelli legati ai bitcoin. I fondi quotati con sottostante oro hanno invece evidenziato uscite per 2,8 miliardi.
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