Se le Compagnie commerciali inglesi, olandesi, portoghesi che nel XVII secolo si contendevano il commercio mondiale possono assomigliare ai «club deal» della loro epoca, allora adesso – fatte le dovute proporzioni – abbiamo anche una Compagnia italiana. Parliamo dei settori economici che più nazionali non si può: vino e cibo. Mentre il modello è appunto quello del «club deal», cioè il capitale è aperto agli investitori interessati a un progetto finanziario-industriale di durata pluriennale. Così è nata, in queste prime settimane autunnali, la Compagnia del Gusto: una Spa organizzata nella forma del club deal e strutturata come piattaforma di investimento nell’agrifood, con tre focus verticali specifici: ittico, vitivinicolo e alimentare artigianale. E con un orizzonte internazionale, per esportare e distribuire i prodotti direttamente: un progetto che è anche una sfida italiana alla nuova stagione dei dazi.
Trieste
L’idea arriva, non a caso, da una città portuale come Trieste e da una famiglia che di Compagnie se ne intende, attiva nella logistica e nello shipping da un paio di secoli. Ma in questo caso Francesco Cosulich, una lunga esperienza nella finanza internazionale, ha pensato al connubio con le eccellenze italiane agroalimentari e vitivinicole. Nella convinzione che sia proprio il matrimonio con la finanza – intesa come applicazione di modelli per la gestione del business, dell’equity, del debito – a fornire a questi settori quel supporto che spesso viene a mancare, impedendo lo sviluppo di tanti progetti potenzialmente di successo.
Intorno all’idea di Cosulich si è formata la squadra degli sponsor che siede nel board assieme al fondatore: manager e imprenditori provenienti da esperienze diverse, che formano il nucleo dei soci promotori della Compagnia del Gusto, tra i quali il presidente Sergio Albarelli (guru dell’asset management, già al vertice di Azimut), l’ad Ettore Nicoletto (per oltre un decennio ceo del gruppo Santa Margherita) e i partner Carlo Tamburi, Carlo Trabattoni, Gabriele Milani, Paolo Intermite, Paolo Vanoni e Federico Cosulich.
Quando il club deal sarà a regime, lo schema prevede che fondatori e promotori si assestino intorno al 10%, mentre il restante 90% è a disposizione di varie categorie di investitori esterni: dai privati, ai family office, fino ai big istituzionali. Potranno poi entrare gli imprenditori che faranno parte del progetto, conferendo alla Compagnia il controllo della loro attività o reinvestendo parte del ricavato.
Il modello prevede infatti che il capitale raccolto venga investito rilevando almeno il 51% delle aziende target, che quindi entrano a far parte del gruppo. Chi vende può mantenere quote di minoranza e restare a gestire l’azienda, sotto controllo e coordinamento della Compagnia. Le aziende acquisite entrano a far parte dei tre verticali, costituiti in business unit (sono Srl) controllate al 100% dalla holding: Compagnia del Mare per l’ittico; Compagnia delle Vigne per il vitivinicolo; Compagnia dei Sapori per le eccellenze artigianali.
Distribuzione
Se il modello non è originale, lo è però in questo caso, dice a Moneta l’ad Nicoletto: «Di norma un club deal investe su un verticale: una bella realtà gastronomica come società target, un progetto e si fa l’operazione. Nel caso nostro, il club deal è più articolato, investe in tre realtà, su segmenti premium e super premium. Inoltre, puntiamo a esportare molto investendo anche nella distribuzione, lo faremo in Usa e Inghilterra. È una piattaforma innovativa».
Le porte al capitale sono tutte aperte: «A seconda del quantum investito si partecipa o meno alla governance e chi investe adesso lo fa al nominale. Dal prossimo aprile, invece, chi entra lo farà sulla base del Nav (net asset value)». Al momento sono stati raccolti 15 milioni. «L’obiettivo base», rivela Nicoletto, «è arrivare a 50 milioni di equity, ma può salire fino a 65-70». A tendere, gli obiettivi sono importanti: «Abbiamo un’aspettativa di rendimento (Irr, internal rate of return) del 40-50%, con un moltiplicatore sul capitale investito di 5-6 volte in 6-7 anni». E poi? «Il futuro dipenderà dalle condizioni del mercato. Potrà essere un’Ipo, una cessione totale o anche di singoli verticali. L’orizzonte temporale del progetto è 2030-2032».
A valle l’obiettivo della Compagnia del Gusto è quello di arrivare da 200 a 250 milioni di fatturato aggregato nel giro di 5 anni, da dividere in parti uguali tra i tre verticali. E con una redditività attesa del 20% (ebitda), frutto di una media tra le varie attività. «Fisiologicamente i verticali hanno performance diverse. L’ittico orbita tra 8 e 12%, la nostra idea sul vino e di andare oltre al 20%, e con le specialità alimentari artigianali anche oltre».
Al momento la Compagnia ha già chiuso le prime operazioni: nell’ittico è entrato il marchio Fjord, ramo d’azienda acquisito dalla Agroittica Lombarda (la società del gruppo Pasini-Feralpi che è a sua volta entrata nel capitale reinvestendo parte del ricavato); in casa è arrivato anche il brand Sal Seafood; c’è poi l’azienda vinicola friulana Lea Winery, nota per la produzione di vini dealcolati, che rappresentano un prodotto su cui puntare molto; e una cantina croata nell’isola di Sansego, specializzata in vini biologici e maturati nel profondo del mare, conferita dai Cosulich.
Ma molto consistente, aggiunge ancora Nicoletto, è la lista delle imprese in pipeline, «alcune in stadi molto avanzati di due diligence, da chiudere tra le prossime settimane e fine gennaio». La scelta segue un approccio Esg che vuole essere la cifra dei prodotti del gruppo: alta qualità premium come risultato combinato di sicurezza, eccellenza organolettica, tracciabilità di filiera e responsabilità sociale.
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