L’ultimo capitombolo è fresco fresco. E coincide con la pubblicazione dei conti del terzo trimestre che non sono piaciuti per nulla al mercato. Con il titolo StM che ha lasciato sul campo, a cavallo della pubblicazione dei risultati, un buon 20% del suo valore. Il tutto in poche sedute. Ma ormai la disaffezione, con relative vendite a pioggia, non è più una novità. Anche con la diffusione dei conti del primo semestre 2025, lo scorso luglio, il copione fu analogo e aveva il sapore della profonda delusione. Con il titolo che anche allora si inabissò. Il rischio è che la tanto agognata uscita dalla crisi che avvolge da quasi due anni il gruppo italo-francese dei chip, posseduto al 27,5%, in forma paritetica al 50% dallo Stato italiano (via Tesoro) e dallo Stato francese, sia ancora di là da venire.
Il coro degli analisti dell’ultima trimestrale è pressoché unanime. C’è ancora troppa nebbia da dissipare per pensare a una rapida inversione di marcia dei conti nel 2026. Del resto, la stessa società ha previsto un passo ancora sottotono anche nell’ultimo trimestre del 2025 con ricavi stimati in 3,3 miliardi. Sommati ai magri risultati dei trimestri già chiusi, ecco che il fatturato totale atteso per l’intero 2025 è di 11,7 miliardi.
Un altro anno buio per il gruppo dei semiconduttori dopo il terribile 2024, l’anno in cui il gruppo guidato dal francese Jean-Marc Chery lasciò per strada oltre 4 miliardi di ricavi, passando da 17,3 miliardi del 2023 a 13,2 miliardi dello scorso anno. Un biennio quindi tutto da dimenticare per il più grande attore tech dei listini di Milano e Parigi che pare non essere più in grado di rialzare la testa. Parlano i numeri: il crollo delle vendite si è propagato sulla profittabilità facendola implodere. L’utile netto di oltre 4 miliardi del 2023 è stato limato a 1,55 miliardi lo scorso anno e il 2025 dovrebbe chiudere secondo le stime degli analisti con profitti netti di soli 600 milioni.
Non deve sorprendere che una tale frenata si sia riverberata in Borsa. Il titolo dai massimi relativi di fine 2023 sopra quota 45 euro è precipitato a poco più di 21 euro di questi giorni, bruciando oltre 20 miliardi di capitalizzazione. Una distruzione di valore che fa da specchio all’andamento pessimo dei conti dell’ultimo biennio. Una débacle che sta fortemente preoccupando il governo che via Tesoro detiene quasi il 14% del capitale.
Preoccupazione più che legittima e sono note da tempo la profonda insoddisfazioni da parte del ministero dell’Economia sulla gestione operativa. Con accuse neanche troppo velate sulla progressiva francesizzazione del gruppo, da quando Chery nel 2018 ha preso le redini della gestione della società, dopo l’era dei fasti legata allo storico dominus Pasquale Pistorio e al suo successore Carlo Bozotti. Del resto basta guardare all’operato di Chery. Nel 2020 il capo-azienda fa shopping: quattro acquisizioni di cui tre in terra di Francia: da Exagan a Bespoon a Somos. Cui si aggiungerà più avanti anche Cartesiam, altra francese attiva nell’IA. E poi ci sono gli investimenti con terra d’elezione sempre Oltralpe. Nel 2022 si impegna a costruire a Crolles un nuovo impianto per la produzione di wafer, un investimento da 7,5 miliardi. E nel frattempo girano sempre più insistenti voci su un disimpegno dall’Italia, da Catania ad Agrate Brianza, i due capisaldi storici dell’azienda. Con esuberi annunciati e ricorsi alla cassa integrazione. Chery risponde con un investimento anche a Catania nei chip per l’industria dell’auto e altre applicazioni industriali ma la portata dell’intervento (750 milioni) è un decimo delle risorse messe in campo per il nuovo impianto transalpino di Crolles.
Tanto basta per giustificare il malcontento e i segnali di forte sfiducia del governo italiano nei confronti del ceo francese per lo spostamento del baricentro verso Parigi. Non solo. Se è vero che la crisi globale del mercato dei chip, soprattutto quelli legati all’automotive, ha impattato su tutti i protagonisti del settore, StM ha pagato più di tutti.
Il suo più diretto competitor tedesco, Infineon, non ha subito un contraccolpo così grave. Nel 2024 mentre il gruppo italo-francese vedeva crollare i profitti netti da 4,2 miliardi a 1,55 miliardi con l’utile operativo sui ricavi più che dimezzato dal 26,7% del 2023 al 12,6% del 2024, il rivale tedesco vedeva l’ebit margin scendere sì ma fermarsi al 19,8%, sette punti in più di StM. E ora le attese per il 2025 raccontano di utili netti per quasi 1,9 miliardi contro i poco più di 600 milioni attribuiti dal mercato a StM. Se poi guardiamo agli Usa col colosso Texas Instrument ecco che il divario si fa ancora più consistente. Il gigante Usa anche nel 2024, l’anno buio dei chip, ha prodotto utili netti per 4,7 miliardi su ricavi per 15,6 miliardi con una redditività netta di quasi il 30%.
Insomma, se crisi di settore è stata, gli altri ne stanno già uscendo, mentre l’ex gioiellino dell’era Pistorio-Bozotti sta tuttora annaspando. E segnali su un 2026 più confortante ancora non se ne vedono. Ma in Borsa la differenza si vede eccome. StM da fine del 2023 ha più che dimezzato le quotazioni, mentre Infineon ha perso solo una decina di punti percentuali. Anche Texas Instruments a Wall Street si è difesa meglio, con perdite per poco più del 15%.
Del resto se si vuole investire sull’industria dei chip, di là dei big tech dell’IA come Nvidia, perché scegliere StM che quota in Borsa oltre 33 volte gli utili, quando i diretti competitor costano meno e hanno redditività più elevata?
Nel mirino non c’è solo la progressiva francesizzazione operata da Chery, ma anche la controversa gestione della crisi che avrebbe portato il capo-azienda a dissimularne l’impatto sui conti, salvo poi ammetterla con grave ritardo. Con uno strascico anche legale. Negli Usa un gruppo di investitori ha avviato una class action contro il management e in particolare il presidente Chery per aver diffuso in passato stime ottimistiche sull’andamento dei conti rivelatesi poi del tutto sballate.
In effetti Chery, che ha cacciato a inizio 2024 l’italiano Marco Monti, storico capo della divisione automotive, a fine 2023 dichiarava di essere ottimista sul 2024. Salvo poi abbassare le stime sui ricavi di ben 2 volte tra gennaio e aprile del 2024. Pare che nella causa in corso a New York gli inquirenti abbiano audito come testimone un manager uscito dal gruppo, che potrebbe essere lo stesso Monti, che avrebbe dichiarato di aver messo in guardia Chery dal forte rallentamento della domanda del settore auto e che il mercato avrebbe dovuto essere informato sulla caduta dei ricavi per tempo. Cosa che non è avvenuta. C’è di più: mentre non rivelava in tempi utili al mercato il deciso rallentamento in corso, Chery si è messo a vendere azioni della società per 4,1 milioni di dollari, seguito dal cfo Lorenzo Grandi che ne avrebbe vendute per 3,7 milioni, prima che il titolo affondasse. Eppure Chery è più che ben remunerato dalla società. Nel 2024 avrebbe incassato almeno 6 milioni di dollari, di cui solo 1,17 milioni in stipendio base e per il resto in incentivi variabili tra breve termine e lungo termine e accantonamenti pensionistici. Un bel gruzzolo, sempre che riesca un domani a vestire anche le stock option da 100mila azioni all’anno, per tre anni, a uno strike price di oltre 33 dollari del suo piano di incentivo a lungo termine. Con i risultati attuali l’obiettivo è molto lontano. Ma di certo non ha di che lamentarsi. Mentre gli azionisti contano i miliardi di utili svaniti.
© Riproduzione riservata