Reindustrializzazione, competitività e autonomia nelle aree strategiche: le trasformazioni che coinvolgono gli ambiti economici, sociali e ambientali delle nostre società vanno affrontati così. Con pragmatismo. Ma anche con la consapevolezza che l’ideologismo intransigente spesso rende miopi e fa perdere le opportunità di crescita. Luca Dal Fabbro, presidente del Gruppo Iren, lo spiega in Proteggere il futuro, il suo ultimo libro edito da Rubbettino, analizzando l’attuale contesto globale e mettendo in luce le sfide decisive che il nostro Paese deve necessariamente giocare. «Prima di tutte le trasformazioni economiche, politiche e tecnologiche, la più importante sarà nella nostra capacità come esseri umani di immaginare nuove soluzioni per le sfide che si presenteranno sempre più serrate», spiega il top manager ai vertici della multi-utility. In gioco c’è innanzitutto l’interesse nazionale, da tutelare non con una sequela di buoni consigli ma con una concreta serie di pratiche utili a mettere a fuoco il giusto equilibro tra ambiente e sviluppo.
Dal Fabbro, come possiamo davvero “proteggere il futuro”?
«Considerando innanzitutto che esistono tre transizioni globali connesse tra loro: energetica, digitale e geopolitica. In parallelo abbiamo la grande sfida rappresentata dal seguente trinomio: sicurezza energetica, resilienza ambientale e competitività. Oggi per proteggere il futuro occorre trovare il giusto compromesso fra queste componenti. Non c’è vera transizione verde se non coesistono anche la sicurezza energetica e la competitività. Pensare di risolvere la transizione senza domandarsi chi produce le tecnologie, da dove arrivano le materie prime critiche e come si gestisce l’autonomia strategica significa impostare un’economia di sola importazione. Per questo suggerisco una nuova strategia, che punta a evitare lo scontro tra blocchi economici: quella della reindustrializzazione del Paese e della rigenerazione dell’industria esistente nell’ottica di un nuovo rilancio».
Spesso la direzione intrapresa è sembrata però molto differente.
«Ci sono stati di recente alcuni casi che hanno dimostrato come alla base di alcune scelte industriali ci sia spesso una scarsa conoscenza delle dinamiche economiche europee. Ad esempio l’idea di chiudere le industrie di motori endotermici senza avere dei campioni europei sulla mobilità elettrica, senza le adeguate colonnine di ricarica e senza le tecnologie sulle batterie elettriche è un suicidio economico. Significa essere dipendenti da tecnologie che noi riteniamo essere il futuro, con la prospettiva di diventare però un Paese di importatori e cioè un Paese erbivoro, che si fa mangiare dai Paesi carnivori. Fino a poco tempo fa si demonizzava l’industria e la si considerava brutta, sporca, inquinante. Invece si può fare un’industria che non inquina e che anzi pulisce e rigenera, cioè trasforma ad esempio i rifiuti in materiali critici. In questa ottica possiamo trovare nuove strade per competere e tornare a correre a livello globale».
La presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, ha auspicato che la transizione ambientale avvenga “a un passo sostenibile” e che l’industria sia protagonista di questo processo. A Bruxelles sta cambiando qualcosa?
«La commissione Ue deve dimostrare di voler davvero cambiare il corso dello sviluppo. Che sia importante reindustrializzare l’Europa lo si è già compreso soprattutto sul fronte della difesa, ma ora occorre capirlo anche sul lato digitale ed energetico. Se non reagiamo, il crescente bisogno di chip, di pannelli fotovoltaici, di batterie e di tecnologie per i data center ci renderà un mercato di approvvigionamento estero contendibile. Ma siccome siamo la seconda potenza industriale d’Europa e siamo il terzo esportatore mondiale, per mantenere questa leadership dobbiamo anche reingegnerizzare la nostra economia per mantenerla ancora competitiva».
Che tempi dobbiamo concedere al cambiamento? Alcuni traguardi temporali imposti dall’alto come diktat si stanno già rivelando irraggiungibili.
«Bisogna ragionare in termini diversi, come fanno gli americani, che hanno creato startup diventate poi vere e proprie multinazionali in poco più di vent’anni. Se ci mettiamo tutta la forza e apriamo alle competenze di cui i nostri imprenditori sono dotati, in dieci o vent’anni possiamo recuperare la leadership».
Quali sono le leve necessarie ad accelerare la transizione?
«Come priorità l’Italia deve supportare e velocizzare l’installazione del fotovoltaico, l’adeguamento delle reti elettriche e il repowering della vecchia capacità installata grazie a tecnologie oggi più efficienti, sia nell’eolico sia nel solare. Tutto ciò può generare 50mila megawatt in più di capacità, che con i power purchase agreement (Ppa), ovvero i contratti a medio e lungo termine che regolano l’acquisto e la somministrazione di energia tra un soggetto produttore e un acquirente, possono abbassare sensibilmente i prezzi dell’energia. Il concetto è quello di bypassare il mercato elettrico tradizionale e di creare un mercato di Ppa, slegando in questo modo il prezzo dell’energia dal prezzo legato al gas e quindi ragionando su un prezzo legato al costo reale della produzione. Siccome il repowering, con la nuova capacità solare, produce energia a costi decisamente più bassi rispetto a quelli del gas, questo determinerebbe un effetto positivo sulla bolletta degli italiani».
Tra le variabili in gioco ce n’è però una particolarmente incontrollabile: quella geopolitica. Come possiamo gestirla?
«Questa variabile rimarrà imprevedibile per anni, perché è ormai collassato il mondo globalizzato e con l’avvento della de-globalizzazione si sono rotti molti equilibri, come stiamo vedendo. Ci dobbiamo abituare a periodi di grandi tensioni tra gruppi e fronti economici e grandi competizioni sulle tecnologie. Siamo in mare aperto e l’Europa deve decidere che partita vuole giocare: se essere erbivora, carnivora o onnivora».
Nel suo libro punta molto l’attenzione sul tema della resilienza ambientale. Perché?
«L’Italia deve investire nell’ambiente per renderlo meno vulnerabile. Occorrono ad esempio investimenti importanti nell’acqua, sia nella depurazione sia nella distribuzione, e anche negli invasi che la raccolgono. Alluvioni, siccità e blackout recentemente accaduti ci suggeriscono l’urgente necessità di un intervento: l’Italia ha bisogno di un Piano Marshall sull’acqua. Ci vogliono almeno 5-10 miliardi nei prossimi dieci anni per mettere al sicuro questo patrimonio e rendere così il Paese più competitivo».
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