Piante piccole, questioni grandi. La strada che da Guadalajara porta a Tequila – il paesotto messicano diventato simbolo e sinonimo di uno dei più famosi distillati al mondo – attraversa lo Stato di Jalisco e centinaia di campi di agave, rigorosamente varietà Blue tequilana Weber. È letteralmente oro vegetale, la materia prima di un prodotto protagonista di un boom globale, che nel 2023 ha superato gli 11 miliardi di dollari di business e che rappresenta il volano dell’economia messicana. Ma che dietro i numeri da capogiro è attraversato da più di un problema.
Chi arriva qui, difficilmente lo fa per ragioni diverse dal tequila (sì, è al maschile). I furgoncini a forma di botte che trasportano turisti americani sovrappeso, i murales che raffigurano Mayahuel, la dea azteca dell’agave, i cartelloni pubblicitari, i bar e perfino le statue in mezzo alle rotonde: qui tutto parla del tequila. E non potrebbe essere altrimenti, dato che con circa 500 milioni di litri prodotti ogni anno rappresenta oltre l’85% del distillato di agave messicano, nonché la categoria di superalcolici che cresce di più al mondo dopo il gin: in America ha sorpassato la vodka e si stima che nel 2032 il volume di affari globale superi i 18 miliardi. Non stupisce quindi che la cittadina di 42mila abitanti nella piana sotto l’omonimo vulcano, seppur protetta dall’Unesco in quanto pueblo magico, sia soprattutto un crocevia commerciale ed economico.
Eppure, girovagare per distillerie a Tequila non è solo un passatempo per gaudenti cultori del Margarita, del Paloma, del Batanga e chi più cocktail conosce, più ne beva. Al contrario, può diventare un punto di vista privilegiato per comprendere il fenomeno tequila al di là del marketing e degli infiniti imbottigliamenti accostati a rapper e vip vari, dato che a fronte di oltre 3mila marchi sul mercato, le distillerie vere sono circa 150 e qualcuna da sola produce conto terzi fino a duecento «contract brand» diversi. Un discreto caos.
La realtà – che in pochi raccontano chiaramente – è che il mondo del tequila è sempre più scosso da tensioni interne. Lo è sempre stato, con la faida che da 150 anni vede opposte – anche a colpi di pistola – le famiglie dei Sauza e dei Cuervo. Ma ora che girano miliardi lo è a livello più profondo. Il tequila nasce come varietà locale di mezcal, «vino mezcal de Tequila», si leggeva sulle prime etichette. Poi sono arrivati il successo negli Stati Uniti, il boom degli anni ’60 e ’70 e l’industria che è cresciuta esponenzialmente, obbligando il governo messicano prima a definire una denominazione di origine e poi, nel 1994, un disciplinare e un ente preposto al controllo delle norme, il «Consejo Regolador de Tequila». Siccome però il business corre sempre più veloce delle regole, negli ultimi decenni si è scavato un solco fra i colossi del settore e i piccoli produttori, con i primi che utilizzano metodi più industriali e i secondi che cercano di difendere la tradizione. In mezzo, gli agricoltori.
Ed ecco il primo problema: il costo dell’agave. Sulla scorta della nuova moda del bere miscelato, il tequila è diventato di moda (+272,9% dal 2003) e i grandi conglomerati mondiali hanno investito cifre da capogiro: Diageo ha comprato Casamigos, il brand di George Clooney, per un miliardo di dollari, Bacardi ne ha spesi 5 per Patron, Lvmh ha acquisito Volcan de mi tierra, Campari Espolon e così via. Dopo il picco di produzione durante la pandemia, il prezzo ha raggiunto i 34 pesos al chilo (quasi 2 dollari). In molti hanno fiutato l’affare, indebitandosi per comprare appezzamenti di terra dove iniziare a coltivare la preziosa pianta. In meno di dieci anni i coltivatori registrati sono passati da 3.180 a oltre 41mila: un sogno collettivo di benessere sull’onda del consumo mondiale di alcolici. Che però, nell’ultimo biennio ha fatto registrare una frenata, tanto che gli Stati Uniti, mercato principe del tequila, per la prima volta in trent’anni hanno consumato meno alcol. La conseguenza è stata uno stock di invenduto di mezzo miliardo di litri, la sovrapproduzione di agave e il crollo del prezzo fino a 70 centesimi di pesos, che ha innescato proteste degli agricoltori e – mormora qualcuno – un aumento degli incendi dei campi: «Bruciano le piante per riscuotere l’assicurazione e tornare a coltivare mais: è più conveniente».
L’altro motivo di tensione è invece la trasparenza. Tradizionalmente il mezcal – di cui il tequila è una particolare variante locale – si fa raccogliendo le piante quando sono mature e al giusto livello di concentrazione di zuccheri, cioè mediamente tra i 6 e gli 8 anni di età; una volta raccolte, le piñas, i cuori dell’agave, sono cotte e macinate; al succo viene aggiunto lievito, viene lasciato fermentare e poi distillato. Un procedimento lungo e complesso, difficilmente compatibile con i volumi mostruosi richiesti dal mercato del tequila. Per questo i big dell’industria utilizzano stratagemmi. Il primo si chiama «diffusore» ed è un macchinario enorme e costosissimo mutuato dall’industria farmaceutica, che con enzimi e talvolta acido solforico consente di estrarre succo fermentabile anche da piante più giovani e piccole, quelle che si vedono ovunque qui. Il secondo è l’aggiunta di additivi, chiamati abocantes: caramello colorante, estratto di legno, glicerina e sciroppo di zucchero. Quattro elementi tollerati dal disciplinare entro l’1%, ma sui quali si sta scatenando una nuova guerra.
Già, perché i produttori tradizionali da qualche tempo spingono per il diritto di scrivere sulle etichette la dicitura «additives free», ma il CRT non sente ragioni. Grover Sanschagrin, fondatore del sito tequilamatchmaker.com, da anni compila una lista dei marchi che non usano additivi e ha anche creato l’associazione no profit AFA per portare avanti la battaglia. Le istituzioni gli hanno fatto causa e lo hanno obbligato a ritirare la lista, sostenendo che è impossibile certificare l’assenza di additivi e che la dicitura «additives free» crea confusione. Ragion per cui anche il big Patron è finito nel mirino: per la sua campagna pubblicitaria fondata sulla produzione senza additivi è andato incontro al blocco delle esportazioni per alcuni giorni, finché non ha acconsentito a «mediare». E cresce il coro di chi accusa il Consejo di essere prono agli interessi dei grandi produttori, contrari a nuove certificazioni di «autenticità» nonostante l’industria globale del food vada proprio in direzione del «bio» e della trasparenza.
Ma non è tutto. È di pochi giorni fa un altro casus belli, con Diageo – il numero uno del beverage mondiale – denunciata a New York dal Jazz Age Cocktails group. Grave l’accusa: secondo i gestori di alcuni locali, i brand Don Julio e Casamigos utilizzerebbero alcol di canna da zucchero all’interno dei loro tequila. Una pratica accettata dal disciplinare a patto che il distillato di agave sia almeno il 51%, ma non se – come nel caso in questione – i tequila sono commercializzati con la dicitura «100% agave», che li pone a un livello qualitativo considerato superiore al cosiddetto «mixto». Diageo ha già annunciato guerra legale, ma la querelle è indice di un clima teso. Perché se è vero che senza i colossi il tequila non sarebbe così ricco, è altrettanto vero che esistono realtà più piccole che cercano di differenziarsi per non venire cannibalizzate. L’italiana Velier importa per esempio El Tequileño e Fortaleza, marchi di due distillerie indipendenti che fanno da anello di congiunzione fra i piccoli e i grandi e rappresentano – insieme ad altri – la «terza via»: ovvero custodire la tradizione senza per questo rinunciare all’innovazione tecnologica e rinnegare marketing e volumi.
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