Agnelli, Pininfarina, Giugiaro. L’impresa sabauda che ha fatto grande Torino e l’Italia ha cambiato pelle, si è sgretolata sotto il peso della modernità, della globalizzazione. Non tutta, certo. Ma la capacità piemontese di far convivere industria e poesia, metallo e caffè, auto e cioccolato, sembra stia tramontando. Molti pezzi della grande industria sono finiti all’estero e proprio in questi ultimi mesi un altro tassello di storia, dal design alla stampa fino al pallone, è sotto assedio.
Ferite e vuoti urbani che si moltiplicano nonostante le riqualificazioni tentate. La città industriale per eccellenza sta perdendo i suoi simboli. Un processo in cui la famiglia Agnelli-Elkann ha di certo una responsabilità da leone. E così dopo il design di Pininfarina finito agli indiani, e il cashmere di Loro Piana ai francesi, l’assedio continua. La Fiat divenuta Stellantis ha ridotto la produzione e messo alla porta l’indotto automotive. Poi, i camion di Iveco sono passati al gruppo Tata; Marelli è diventata giapponese e l’automazione industriale di Comau è sotto la nuova bandiera a stelle e strisce.

Negli ultimi giorni si è aggiunto alla lista lo stile di Italdesign: la storica società torinese (fondata negli anni Sessanta da Giorgetto Giugiaro) è stata venduta da Audi a Ust, società californiana di proprietà indiana che si occupa di informatica e digitale. A perdere la carta di identità piemontese sono anche i giornali storici: La Stampa, Repubblica e le radio del gruppo Gedi vanno spedite verso la nuova proprietà greca. Il piano è inclinato, non si torna indietro, e la dispersione dei simboli industriali e culturali continua.
È la fine delle aziende familiari? Certamente no, ma queste sono le prime nel mirino quando non hanno basi solide o una seconda, terza e quarta generazione all’altezza. Secondo Unioncamere Piemonte, soltanto un’azienda su quattro programma il passaggio del testimone e nella maggior parte dei casi (il 53%) il periodo in cui si compirà il processo supera i dieci anni. Per i leader in azienda, la qualità principale del successore deve essere la dedizione all’impresa, mentre ai familiari è richiesta dedizione al lavoro nel 69% dei casi. Altro tema, la necessità di una programmazione lunga, sui 5-7 anni, e l’accesso al capitale per la crescita. Così come lo è la capacità di innovare: di fatto il 77% delle aziende del campione non ha personale dedicato stabilmente all’innovazione. Tema rilevante se consideriamo che il 66% delle aziende è a conduzione familiare.
La frenesia del mercato è arrivata anche al calcio torinese. E dopo il gran rifiuto di Elkann al socio Tether, si dice che alla finestra ci sia un grande amico dell’erede Agnelli: il principe saudita Mohammad bin Salman che, tra l’altro, ha messo gli occhi sul parco immobiliare di Torino e Provincia. Quasi 160 fabbriche abbandonate, più di 3.500 ettari per investimenti. Un patrimonio che piace agli stranieri. Ne è un esempio l’area ex Pininfarina di Grugliasco che è andata a investitori francesi per creare un data center.
Un nuovo mondo dove fanno fatica a resistere le storiche aziende: l’anno medio di fondazione delle imprese piemontesi è il 1976; la più antica risale al 1900. In Piemonte batte anche il cuore del sito ex Ilva Racconigi che, come tutto il siderurgico tarantino è in amministrazione straordinaria in attesa di un acquirente, anche questa volta straniero. In pista ci sono due fondi americani. Un quadro cinico in cui restano però le eccezioni. In Piemonte c’è ancora un nocciolo duro di aziende familiari che tiene alto il vessillo sabaudo: Ferrero, Lavazza, Buzzi, Vergnano per citarne alcune.
Fondato dai fratelli Pietro e Giovanni Ferrero ad Alba, l’omonimo gruppo è oggi guidato da Giovanni Ferrero (nipote del fondatore, figlio di Michele Ferrero) e resta – pur globalizzandosi – un simbolo fortissimo. Ferrero è stata la prima azienda dolciaria italiana ad aprire stabilimenti e uffici all’estero nel secondo dopoguerra, dando così all’impresa un respiro internazionale. La sua espansione è iniziata nel 1956, con l’inaugurazione di un grande stabilimento in Germania, cui ha fatto seguito un secondo in Francia. Da quel momento, Ferrero ha continuato a crescere e opera attualmente in Europa, Nord e Sud America, Africa, Australia e Sud-Est asiatico. Ma l’azienda è e resta saldamente ad Alba in mani italiane.
Così come Lavazza che ha preso le mosse nel 1895 quando Luigi Lavazza aprì una torrefazione artigianale nel centro di Torino e oggi ha un quartiere di 30mila metri quadri, la Nuvola Lavazza, con un Museo, la Piazza e lo spazio eventi La Centrale.
Anche la famiglia Vergnano tiene alta la tradizione del caffè con la quarta generazione pienamente al comando e stabilimenti tutti made in Italy in provincia di Torino. È stata fondata nel 1882 a Chieri e nei prossimi mesi sarà protagonista dei delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026 di cui l’azienda è Official Coffee, grazie all’accordo di distribuzione con Coca-Cola Hbc e al supporto di Coca-Cola ai Giochi.
Infine i Buzzi che hanno dato vita alla società nel 1907 a Casale Monferrato portando nel mondo cemento e calcestruzzo, ma mantenendo forte il legame familiare nella gestione e nei valori. «L’azienda è sempre stata condotta da fratelli: da questo forte spunto comune ricava forze e risorse per il futuro», commentava nel 1982 Luigi Buzzi.
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