«La Borsa? Per ora non è un’opzione». C’è un nocciolo duro di grandi imprese italiane, per lo più familiari, che di Piazza Affari non vuol proprio sentir parlare. Da Ferrero a Barilla passando per Esselunga, Lavazza, Menarini, Marcegaglia, Sammontana e Giochi Preziosi. Nomi eccellenti di un’imprenditoria che arriva da lontano – per Barilla siamo alle porte della quinta generazione – e che per diverse ragioni non ritiene la quotazione una strada utile da seguire.
«Non si vende niente, neanche un’azione. Siamo tre famiglie, andiamo d’accordo e non vogliamo né quotarci in Borsa, né vendere a un fondo», racconta Lorenzo Bagnoli, l’amministratore delegato di Sammontana che nei prossimi 5 anni punta a raddoppiare il fatturato soprattutto con lo sviluppo internazionale. Un’affermazione, quella del gruppo fiorentino del gelato, che ha in sé tanta verità sulle ragioni profonde che animano questo tipo di scelta. La prima risiede nella natura familiare dell’azienda, caratteristica che spinge chi la amministra, solitamente un erede del fondatore, a proteggerne l’azionariato. Il successo di famiglia non va “condiviso”, né tanto meno gestito da soci esterni verso i quali c’è poca fiducia.
Non è un caso che nel 71% delle imprese a controllo familiare non siano presenti altri azionisti rilevanti. Per il gruppo Barilla, che nel 2027 festeggerà i 150 anni di vita, il 2025 è un anno cruciale. Ai fratelli Guido (presidente), Luca e Paolo (vicepresidenti) ed Emanuela (membro del cda) si stanno, infatti, affiancando gli eredi. Alcuni di loro sono già entrati: senza ruoli di rilevanza, per ora, ma è un segnale di continuità per un gruppo che sulla famiglia continua a fare perno.
E, d’altra parte, la macchina dimostra di girare bene così: con circa 9 mila dipendenti e 30 siti produttivi, dei quali la metà in Italia, il gruppo stima di chiudere il 2024 con un giro d’affari in crescita a 4,9 miliardi. Sull’apertura del capitale a Parma la posizione è la stessa del padre Pietro: la famiglia resta al centro. «Per ora la Borsa non è un’opzione — dice Luca Barilla —. Ci piace gestire autonomamente l’azienda che ha sempre dimostrato di potere restare indipendente e continuare il cammino con mezzi propri». Se guardiamo al profilo finanziario, un ruolo importante è giocato dal rapporto banche-imprese che in Italia è ancora, in parte, territoriale.
Da sempre le aziende italiane preferiscono finanziarsi in banca piuttosto che sul mercato. E questo anche per la storica fiducia che società del calibro di Ferrero e Barilla hanno con i grandi istituti. Non solo, nel tempo sono nate altre fonti alternative di capitale, come il private equity.
Tra controllo e trasparenza
Insomma, per alcuni imprenditori gli svantaggi della proprietà pubblica superano l’attrattiva di accedere a grandi quantità di risorse fresche. In particolare, tra i fattori a sfavore dei mercati pubblici vi sono la perdita di controllo e la trasparenza indesiderata.
Essere quotati significa, infatti, mettere l’azienda, e i suoi amministratori, totalmente sotto i riflettori. In particolare, a prevalere è la paura di rendere pubblici i propri report, nonché la scarsa predisposizione a condividere obiettivi e risultati, con periodici confronti con gli investitori (il mercato) e rappresentanti terzi nei consigli di amministrazione. Per Esselunga, per esempio, si parlò di quotazione tra i 2017 e il 2018 con una valutazione, all’epoca, tra 4 e 4,5 miliardi di euro. Ma poi non se ne è fatto più nulla.
Lo stesso per il gruppo dei giocattoli Giochi Preziosi che nel 2022 preferì alla quotazione a Piazza Affari l’acquisto del gruppo spagnolo di bambole Famosa. «Attualmente siamo molto felici di poterci concedere il lusso di una governance di medio lungo termine per cui non prevediamo assolutamente nessuna forma di quotazione», diceva nel 2020 Giovanni Ferrero, amministratore delegato del gruppo dolciario che portato il nome di Alba in tutto il mondo con i barattoli della Nutella.
Ancora più esaustivo Antonio Baravalle, ceo di Lavazza che ha recentemente spiegato: Di collocamento sui listini «non se ne parla: un’azienda delle nostre dimensioni, che è 100% caffè, se si quota in Borsa incontra vincoli enormi sui processi di sviluppo. La nostra scelta è: prendiamo il meglio di una quotata dal punto di vista di regolamentazione, disciplina e strumenti di controllo, ma ci teniamo la libertà operativa di un azionista, di una famiglia. La Borsa non darebbe valore aggiunto».
Un terzo fattore
Il business in cui opera un’azienda può essere, quindi, un altro aspetto dirimente nella scelta verso la quotazione. ll Ftse Mib è un indice storicamente sbilanciato verso il settore finanziario, con una massiccia presenza di banche nel paniere principale. Ci sono però altri settori che rivestono un ruolo importante a Piazza Affari, come l’automotive, le utilities e l’oil&gas. Per contro, i settori con il minor numero di aziende nell’indice principale sono la Tecnologia (con StMicroelectronics), il food & beverage (con Campari) e l’edilizia e materiali (con Buzzi).
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