L’ultimo segnale è di pochi giorni fa, e non è un bel segnale per il settore della moda italiana. Anche nel primo trimestre, dopo un 2024 di poche soddisfazioni, le vendite hanno fatto passi indietro. Si tratta di dati parziali, riferiti a 10mila imprese censite da Confindustria, ma se i settori calzaturiero, pelletteria e abbigliamento in pelle hanno registrato ricavi in caduta del 6,4%, è difficile che gli altri segmenti del lusso abbiano di che gioire. D’altro canto, le cose non sembrano andare meglio per i grandi marchi del lusso mondiale, basti ricordare che, sempre con riferimento al primo trimestre, i ricavi di Lvmh hanno subito una contrazione del 3% e quelli di Kering del 14%. Se a ciò sommiamo i non molto lusinghieri risultati dell’intero 2024 (-2% Lvmh e -12% Kering), si ha chiara la visione di un trend non più solo congiunturale – segnato dalla minore propensione all’acquisto in uno scenario geopolitico che invita alla prudenza – ma che potrebbe diventare strutturale se le grandi maison non cambieranno rapidamente rotta.
Sembra infatti che la mera presenza di un brand altisonante non sia più sufficiente a suscitare desiderio per quel determinato oggetto. Oggi si cerca l’eccellenza tout court, sicché solo le aziende che sapranno rispondere a questa esigenza, investendo in qualità, artigianalità ed esperienza-cliente, avranno un futuro di prosperità in un mercato sempre più competitivo e selettivo. Non per caso, dopo un 2024 al galoppo (+13%), Hermès ha consolidato un primo trimestre 2025 in crescita del 7%. E non per caso la maison fondata dal sellaio Tierry Hermès capitalizza alla Borsa di Parigi 239 miliardi a fronte di ricavi per 15 miliardi e utili netti di 4,6 miliardi: sono grandezze che umiliano il gigante Lvmh, che in Borsa vale meno (226 miliardi) nonostante un fatturato immensamente superiore (81 miliardi) e un utile netto tre volte superiore (12,5 miliardi).
In altre parole, assistiamo a una domanda di lusso generico in caduta e una di lusso assoluto che si fa strada, alla quale oggi sono in grado di rispondere pochissime realtà aziendali, come appunto Hermès, Ferrari, Armani. Ma che cos’è il lusso assoluto? «Un lusso non urlato, un lusso che sussurra», ci spiega il banchiere d’affari che si è offerto di accompagnarci in questo nuovo mondo dove le aziende chiedono finanziamenti per realizzare l’inarrivabile. Niente mezze misure, solo l’assoluto, che si tratti di una nuova linea di borsette o della realizzazione di un albergo autenticamente esclusivo.
In altre parole, è finita l’epoca del monogramma LV visibile a tre isolati di distanza. La borsa Vuitton da tremila euro, quella che una volta bastava per entrare nel club, oggi è diventata una sorta di uniforme da campo profughi deluxe. La indossano in troppe. Le influencer, le ex mogli dei dentisti, le figlie di qualcuno che ce l’ha fatta. Troppa gente. Troppi selfie.
Allora si fa strada un segmento crescente della ricchezza globale, che rifugge dalla ribalta. Non per timidezza né per eccesso di sobrietà, ma per istinto di separazione. È una nuova forma di lusso, che non vuole riconoscersi nell’ostentazione. Che trova valore nell’irripetibile, nella discrezione, nell’individualità. Non cerca i riflettori, ma l’ombra. È la risposta di una minoranza economica sempre più infastidita dal rumore della massa arricchita, quella che ha preso confidenza con brand iconici e status symbol replicabili, svuotandoli di significato. Oggi l’accesso non è più determinato dal prezzo, ma dalla possibilità o meno, di sapere dove cercare. Aggiunge il nostro banchiere, concreto interprete di questo nuovo cambio di paradigma: «Non si tratta più di spendere di più. Si tratta di accedere a ciò che non è in vetrina. Il vero lusso non ha insegna, non ha sito web, non ha campagna pubblicitaria».
È un ribaltamento simbolico: la borsa griffata non è più il lasciapassare, ma l’indizio di un consumo standardizzato. Le Louis Vuitton, le Gucci, le Dior, le Prada ormai onnipresenti tra aeroporti e social network, sono diventate divise da grande distribuzione per una nuova classe media ad alto reddito. Troppa esposizione. Troppa replica. E allora l’élite si sottrae. Ricordate il maglione nero di Sergio Marchionne? Ecco, quella era una forma di lusso assoluto.
In questo nuovo ordine, l’unicità non è negoziabile. Si indossa una Birkin da trentamila euro solo se irripetibile. Magari senza logo, magari con un dettaglio invisibile, conosciuto solo dal committente e dall’artigiano che l’ha realizzata. È il trionfo della manifattura su misura, riservata a chi non cerca approvazione ma riconoscimento silenzioso. Dietro questo movimento si cela un’economia parallela, fondata su atelier inaccessibili, artigiani senza vetrina, eccellenze che non si pubblicizzano. Il sarto giapponese che lavora ascoltando il vento. Il calzolaio fiorentino che affina la pelle come fosse Chianti. L’orafo che ti promette un bracciale con polvere di stelle – e tu lo paghi, non perché ci credi, ma perché sai che non potrà replicarlo. Qui, il consumo non è più merce. È linguaggio. È codice tra iniziati. È identità.
Il lusso, in questa dimensione, non è ciò che si possiede, ma ciò che si conosce. È capitale culturale, prima che economico. È la negazione della massa anche dentro l’élite. Il capitalismo dell’ostentazione – quello che ha democratizzato l’alta moda con le rate e le promozioni – ha saturato il mercato del desiderio. Anche l’esperienza di un hotel a cinque stelle ora può essere acquistata con un coupon. Ma la vera élite rifiuta di essere raggiunta da algoritmi e offerte sponsorizzate. Non vuole condividere il salotto con chi ha trovato l’ingresso su Instagram.
Il risultato? Il ritorno a un privilegio che non si misura in possesso, ma in esclusione. È un capitalismo post-narrativo, dove l’identità non si comunica, si nasconde. L’élite non vuole più essere riconosciuta. Vuole essere differente per natura. Invisibile, ma inconfondibile. Pagare di più per farsi vedere di meno. «Un paradosso solo apparente, se si comprende la vera dinamica: meno è visibile, più è desiderabile», osserva il nostro banchiere.
Persino la filantropia è superata. Non c’è più bisogno di espiare. Il nuovo ricco non si giustifica. Rifiuta il senso di colpa, perché non vuole restituire, ma progredire. Non vuole consenso, vuole separazione. Ma è bene che sappiano, i signori che guidano il lusso mondiale, che l’accesso non è garantito, si conquista, ma serve conoscenza, fiducia, tempo. Nessuna scorciatoia. Devono comprendere che il tempo dell’accessibilità travestita da esclusività è finito. Il futuro appartiene a chi saprà uscire dalla logica dell’uniforme di lusso per entrare in quella del segreto condiviso. L’investimento non sarà più in campagne globali, ma in silenzi eloquenti, esperienze irripetibili, savoir-faire autentico. E solo chi saprà disimparare l’ostentazione per abbracciare la rarefazione potrà abitare il nuovo Olimpo dell’eccellenza. Dove si entra non pagando, ma appartenendo.
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