Non è semplice ornamento. È il bello che si fa materia, è l’eleganza che prende forma. Il gioiello è una storia fatta di emozioni, cultura e tradizione, in cui ogni creazione nasce da un gesto sapiente, da una visione artistica che trasforma materiali preziosi in opere d’arte da indossare. In questo, il Made in Italy si distingue e diventa espressione di eccellenza artigianale. Un patrimonio, costruito nel tempo, che potrà aiutare l’industria orafa italiana in un momento complesso. A raccontarlo a Moneta è Claudia Piaserico, presidente di Federorafi, l’associazione che riunisce oltre 500 imprese orafe, argentieri e gioiellieri.
L’export conta per il 90% del fatturato. Dopo anni di crescita, il 2025 è iniziato con segno meno. Come mai?
«Innanzitutto c’è un fattore fisiologico. Dal 2020 ci siamo abituati a volumi con percentuali di crescita esponenziali e fuori da ogni aspettativa, che non potevano continuare. Il confronto con l’anno scorso poi è falsato dal fenomeno Turchia, per cui nel 2024 c’è stato un aumento anomalo di esportazioni, con un +40%».
Come mai?
«In Turchia abbiamo assistito a una vera e propria corsa di accaparramento all’oro come bene rifugio, in risposta a un’inflazione elevata e a una difficoltà economica del paese. L’operatore turco acquistava in Italia un semilavorato per cui la manifattura incideva praticamente nulla e lo rifondeva ottenendo così maggiori margini in termini di tassazione e prezzi».
E negli Stati Uniti come è andata?
«Per noi l’export verso gli Stati Uniti è importantissimo e l’incertezza arrivata con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e le sue politiche commerciali non ha aiutato in questa prima parte dell’anno».
Dove allora si cresce?
«Stanno crescendo altri mercati, come Emirati Arabi Uniti, Svizzera e Francia. Ma soprattutto l’Oriente sta dando risultati soddisfacenti, con il Giappone ancora solido, la Corea in costante ascesa, la Malesia e la Thailandia dinamiche. Addirittura Hong Kong, che aveva sempre registrato una certa debolezza, sta registrando una buona performance».
E il mercato interno come si sta comportando?
«Quello interno è un mercato particolare, nel senso che nella stessa Italia ci sono tendenze diverse tra Nord e Sud. Il consumatore delle regioni meridionali conserva una importante tradizione del regalo che segue le cerimonie religiose, come la comunione e il battesimo, mentre nel Nord c’è una certa disaffezione verso il mondo del gioiello. Abbiamo poi l’approccio degli stranieri, che è un altro ancora e segue i flussi turistici».
A proposito del turista, il Made in Italy è sufficiente a sostenere le vendite?
«Il Made in Italy va promosso non solo all’estero ma anche nel nostro mercato. Perché non è solamente il design, la creatività, il bello. Il Made in Italy è uno scrigno dentro cui ci sono tantissime altre voci: c’è qualità, innovazione, recupero dell’artigianalità, attenzione alla sostenibilità. C’è un mondo che deve essere comunicato. E poi…».
E poi?
«Poi c’è questo mix che rende il nostro prodotto diverso da tutti gli altri: innovazione tecnologica e recupero dell’artigianalità. Sembra un ossimoro ma non è così. L’innovazione aiuta nel contenimento dei pesi, nella migliore qualità, nel maggior comfort del gioiello. Questo risultato viene avvalorato da tecniche artigianali di generazioni. Per cui non è un gioiello bello, preferiamo dire ben fatto».
Torniamo all’attualità, c’è da preoccuparsi per il rischio dazi Usa?
«Se scattasse l’aumento dei dazi, l’industria del gioiello italiano potrebbe subire un duro colpo ed entrare in crisi in maniera pesante. Tant’è vero che abbiamo fatto moltissima pressione sul governo per far capire che non siamo assimilabili alla moda, in quanto abbiamo un’incidenza straordinaria del costo della materia prima. Tuttavia, durante la fiera di Las Vegas dello scorso mese, abbiamo riscontrato un apprezzamento del valore del Made in Italy, che può essere una delle nostre ancore di salvezza. Nel tempo abbiamo guadagnato una dignità e un riconoscimento da parte del consumatore americano che ci apre uno spiraglio per il futuro. Non per tutti allo stesso modo, però».
Cioè?
«L’effetto dazio sarà più pesante per le imprese unbranded (senza marchio, ndr) che hanno margini non elevati soprattutto se rapportati al valore della materia prima contenuta nei monili. Si calcola che su un prodotto finito la materia prima incida anche per il 90% sul totale del prezzo di vendita e, quindi, il dazio, calcolato sul valore complessivo del prodotto (materia prima + valore aggiunto), impatta in modo rilevantissimo sui margini. Ulteriori dazi porteranno a quadruplicare l’impatto sul margine di una Pmi orafa italiana che sta già intervenendo in modo significativo sul prezzo finale di vendita».
Di quanto?
«Un aumento del 40-50%. Ad esempio, una catenina di 5 grammi di oro a 18kt, prima degli aumenti di aprile, veniva acquistata dal consumatore statunitense a circa 440 dollari; con i nuovi dazi, la stessa catenina, per garantire all’impresa orafa italiana l’identico valore aggiunto pre-aumenti, dovrà essere venduta ad almeno 640 dollari, ovvero con un aumento del prezzo di oltre il 45%».
Il comparto potrebbe soffrire a tal punto da mettere in cassa integrazione i lavoratori?
«La realtà non è uguale per tutti, ma in questo momento il settore è ancora sano. E anzi si continua a ricercare personale, considerando anche il fatto che nel giro di cinque anni andranno in pensione moltissimi dei nostri lavoratori e artigiani e abbiamo bisogno del rimpiazzo generazionale».
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