Rilanciare la competitività globale del tessuto industriale europeo è una sfida impegnativa. Ma certo non impossibile. Gli strumenti per farlo, del resto, non solo esistono ma sono pure a basso costo: più che il denaro, serve la reale volontà di creare nuove catene di valore. Ne è fermamente convinto Pasquale Frega, presidente e amministratore delegato di Philip Morris Italia, che a colloquio con Moneta ha anticipato in esclusiva le evidenze di un report realizzato sull’argomento con The European House Ambrosetti. Il documento, che verrà presentato proprio quest’oggi nell’ambito del Forum economico di Cernobbio, attesta il ruolo fondamentale delle grandi imprese leader nella generazione di valore e nel potenziamento delle realtà più piccole. Da qui, l’intuizione di codificare un nuovo modello di sviluppo industriale basato sulla realizzazione di ecosistemi integrati.
Dottor Frega, da dove nasce questa strategia?
«Da una constatazione: negli ultimi 25 anni c’è stata una grossa crisi della produttività nei sistemi economici più maturi – ovvero Stati Uniti, Europa e Giappone – a favore della Cina e questo lo si vede nei dati sulla distribuzione globale delle aziende leader. Il continente che ha sofferto di più in perdita di competitività è proprio l’Europa, perché è sempre rimasta incerta sulla via da prendere, infilandosi in un dualismo senza uscita: spingere la competitività diminuendo il potere delle grandi aziende o regolare queste ultime a favore delle piccole e medie imprese? Questa paralisi decisionale ha portato a una stagnazione, come dimostrato anche dai report di Mario Draghi ed Enrico Letta. Ma quando si parla di produttività, di innovazione, di creazione di valore e di lavoro, le aziende leader hanno performance nettamente superiori alla media».
Cosa dicono i numeri?
«Che le imprese leader, pur rappresentando meno dell’1% delle aziende manifatturiere, generano il 64% del valore aggiunto e il 43% dell’occupazione del settore. Le prime cento, da sole, producono un terzo del valore aggiunto e impiegano quasi un quinto della forza lavoro. Inoltre, hanno una produttività molto superiore alla media (143mila euro per dipendente, 189mila nelle top 100, cioè tre volte quella delle piccole imprese). Sono motori di innovazione, ma il loro contributo ai brevetti è limitato (17%). Quindi servono ecosistemi di innovazione più ampi e si rende necessaria una terza via».
Quale?
«La creazione di catene di valore in cui le grandi aziende lavorano a stretto contatto con le piccole, perché quando questo accade gli ecosistemi di riferimento crescono maggiormente. I dati dimostrano che, in Europa, a soffrire la perdita di competitività è stata proprio l’Italia, che ha un tessuto di 380mila pmi e un peso rilevante nella manifattura europea (fa il 12,7% del valore aggiunto Ue), ma è sottorappresentata tra le principali aziende a livello mondiale, con solo 6 aziende leader tra le prime 100. La vera sfida per le piccole e medie imprese non risiede solo nella loro dimensione ridotta o nella limitata proiezione internazionale, ma nella difficoltà di inserirsi in filiere strutturate che favoriscano la crescita. È fondamentale promuovere modelli virtuosi di collaborazione tra grandi aziende e pmi, capaci di generare valore condiviso, innovazione e competitività. Questo è esattamente ciò che stiamo cercando di realizzare nella nostra filiera in Italia».
Già oggi Philip Morris rappresenta un esempio virtuoso di filiera integrata. Come siete arrivati a questo risultato?
«Tutto è nato da una visione: costruire un futuro senza fumo, sostituendo le sigarette con prodotti senza combustione per i fumatori che non smettono. Basandosi sui punti forza di questo Paese, quali la produzione di tabacco di qualità, abbiamo realizzato un impianto di produzione come quello di Crespellano (Bologna), situato in una regione in cui c’erano risorse tecniche adeguate. Philip Morris voleva puntare su questa sfida, lo ha fatto investendo sul territorio oltre 1,5 miliardi di euro, e senza questa progettualità non saremmo arrivati ai risultati che si apprezzano oggi. È altresì evidente che queste performance non si sarebbero potute raggiungere senza un adeguato dialogo tra pubblico e privato, che consente l’innovazione e l’internazionalizzazione. Il beneficio generato è significativo sia per Philip Morris, sia per le 44mila persone attive nella nostra filiera italiana e per le oltre 8mila imprese che collaborano in questa catena di valore, tra cui circa 1000 aziende agricole che hanno accordi con noi sulla coltivazione del tabacco, le quali possono pianificare investimenti a lungo termine proprio perché all’interno di questo modello hanno una prospettiva decennale chiara».
Nel report con Ambrosetti avete stilato anche alcune raccomandazioni. Quali sono le più decisive?
«L’evoluzione di cui trattiamo è influenzata in maniera forte dal quadro regolatorio europeo. Per cui sollecitiamo una call for action a guardare al tema della competitività attraverso la creazione di filiere di valore. La terza via, che esce dalla dicotomia grande-piccola impresa, indica uno scenario verso il quale bisognerebbe rivolgersi. Politiche di questo tipo potrebbero essere realizzate a costo zero, quindi a tema non ci sono particolari richieste di investimenti da parte dello Stato o delle istituzioni comunitarie: si tratta piuttosto di creare le condizioni che favoriscano questa collaborazione».
Nel documento viene anche proposto un Value Chain Pact. Di che si tratta?
«È un modello a cui tendere e che richiede un’azione coordinata in quattro dimensioni strategiche: persone, tecnologia, sostenibilità e fornitori. Riconosce il ruolo centrale delle aziende capofiliera nel trasferimento delle conoscenze, nell’accelerazione dell’innovazione e nel supporto alle piccole e medie imprese nel loro percorso di trasformazione. Questo Patto di Filiera trova un esempio tangibile anche nella visione di Philip Morris attraverso gli accordi di filiera che sigla dal 2011 con Coldiretti e il ministero dell’Agricoltura».
Quali sono i maggiori rischi legati all’attuale immobilismo politico europeo?
«Il vero problema è l’iper-regolamentazione, con i suoi effetti negativi sui sistemi economici. Siamo in una situazione kafkiana, perché è stata confermata una Commissione europea che nel precedente mandato, con il Green Deal, aveva creato condizioni di decrescita. Ora l’agenda politica è leggermente cambiata e al suo interno è stato inserito proprio il tema della competitività, perché in passato l’intenzione di regolamentare tutto aveva frenato anche questa spinta. Ma allo stesso tempo, in settori come quello del tabacco, nelle discussioni in corso sulle prossime direttive europee assistiamo a spinte proibizionistiche che sembrano voler inibire proprio l’innovazione e la trasformazione del settore. Ormai la necessità di una deregulation sta emergendo con forza su più fronti. Se guardiamo con attenzione alle economie emergenti come quelle del Medio Oriente, comprendiamo che ciò che ha consentito questa forte crescita è proprio l’assenza di burocrazia e di regole eccessive».
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