Sughero, fichi d’India, arance, uva e persino funghi. Sono i nuovi ingredienti del lusso sostenibile italiano. Da Nord a Sud, una generazione di startup e piccole-medie imprese (Pmi) sta riscrivendo la storia della pelle: niente più allevamenti, concia tossica o chimica pesante, ma materiali innovativi, eleganti e soprattutto vegetali. Un’onda verde che unisce ricerca, passione, creatività e ingegneria dei materiali, per dare vita a scarti vegetali e offrire una alternativa al settore moda, arredo, design e persino automotive e nautica.
A Catania, nella terra vulcanica dell’Etna, Ohoskin ogni anno raccoglie circa 1 tonnellata a mezza di sottoprodotti di due frutti tipici della Sicilia per trasformarli in un materiale innovativo. L’azienda, fondata nel 2019 da Adriana Santanocito e Stefano Mazzetti, ha brevettato una tecnologia che valorizza gli scarti di arance e fichi d’India, unendoli a polimeri di seconda generazione all’interno di una filiera 100% italiana. Il risultato è un materiale alternativo alla pelle, morbido e resistente, con un’impronta carbonica certificata (Climate Partner, 2023) di 2,57 chili di CO2 per metro quadro, contro gli 86 chili della pelle animale conciata nel mondo e i 3,9 delle alternative sintetiche. «Non usiamo acqua nel processo produttivo», precisa uno dei fondatori a Moneta. «E questo fa una differenza enorme in termini di sostenibilità reale». Oggi Ohoskin collabora con brand della moda, dell’arredamento e dell’automotive, cresce a un ritmo del 40-50% ogni anno in termini di fatturato e ora punta a raccogliere 2 milioni di euro per rafforzare il team commerciale e marketing. La loro «pelle d’arancia» ha già rivestito le pareti di una catena di ristoranti in Spagna e il futuro profuma di nuove partnership e investitori.
Dalla Sicilia alla Sardegna. Qui Lebiu trasforma gli scarti del sughero dei tappi in una pelle alternativa. Fondata nel 2020 in provincia di Olbia da Alessandro Sestini e Fabio Molinas, la startup si prepara a diventare Pmi dopo una crescita di oltre il 50% nelle richieste. Il processo brevettato trasforma la farina di sughero in una pelle vegetale composta per l’85% da materiali biologici, legata con cere e resine naturali. Il risultato? Un materiale resistente, naturalmente idrorepellente, che non teme muffe e soprattutto che pesa la metà della pelle animale. Non per niente, Lebiu significa «leggerezza» in lingua sarda. Oggi l’azienda lavora con diversi brand di moda e design d’interni e ha avviato un programma di mentoring con Loro Piana per sviluppare nuove collezioni. Intanto, «sta chiudendo un primo round di finanziamento», svela Molinas «che sarà utile soprattutto per aumentare ulteriormente la ricerca e la produzione verso un modello industriale solido».
In Toscana, la fiorentina Grado Zero Lab ha scelto un approccio quasi fantascientifico. Nata da un programma di trasferimento tecnologico dell’Agenzia Spaziale Europea, l’azienda sviluppa da anni innovazioni tessili sostenibili. Tra questi anche Muskin, un materiale ottenuto dalla parte interna di un fungo parassitario che cresce sulla corteccia degli alberi. Lavorato sul posto, completamente a mano, quindi senza alcun processo industriale inquinante, senza acqua né additivi chimici, questo fungo si trasforma in un tessuto similpelle dalle proprietà antibatteriche e traspiranti naturali e da una morbidezza simile a quella del camoscio. «La sua peculiarità è che non viene associato a nessun altro tipo di materiale», sottolineano i ricercatori di Grado Zero Lab. Qui, insomma, la risorsa, che cresce spontaneamente in natura, trova un impiego a zero impatto. Ogni pezzo è unico e irripetibile. «D’altro canto, l’assenza di una produzione industriale lo rende inadatto ad applicazioni su larga scala, poiché manca ancora la standardizzazione richiesta in alcuni ambiti produttivi», aggiungono, «È invece un materiale perfetto per applicazioni ricercate, capsule collection e produzioni artigianali di piccola scala, dove si ricercano sostenibilità autentica e caratteristiche uniche». La domanda c’è e arriva da tutta Europa e anche dagli Stati Uniti. E per soddisfarla al meglio, prossimamente verrà lanciato un portale unicamente dedicato a questo biomateriale (Muskin.eu), già declinato in portafogli, borse e accessori.
A Milano, poi, Vegea (il cui nome unisce Veg – vegano – e Gea – terra) trasforma invece l’uva in GrapeSkin, una biopelle vegetale. La tecnologia brevettata valorizza gli scarti dell’industria vinicola – bucce, semi e raspi dell’uva – per creare un materiale simile alla pelle che trova applicazione nella moda, nell’arredamento e persino nell’automotive di lusso. Tra i suoi clienti compaiono infatti marchi famosi come Diadora, Moleskine, Tommy Hilfiger, Geox e Bentley. L’azienda, nata nel 2016, cresce a ritmo costante e si appresta a chiudere il 2025 con un fatturato di circa 3 milioni di euro, il doppio dell’anno scorso. I prossimi passi? «Stiamo lavorando per integrare la tecnologia nei nostri materiali così da permettere una tracciabilità completa della filiera a portata di smartphone in ottica di piena trasparenza», svela Francesco Merlino, proprietario e amministratore unico di Vegea.
E così, tra la leggerezza del sughero sardo, la lucentezza dell’uva lombarda, la spontaneità dei funghi toscani e la vitalità degli agrumi siciliani, prende forma una nuova frontiera del made in Italy: la pelle vegetale che veste il futuro.
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