Imprese a conduzione familiare, chiuse e sulla difensiva. In Italia il sistema produttivo è afflitto da un deficit culturale: è poco compreso il valore aggiunto dei manager in azienda. Numeri alla mano, un divario significativo ci separa infatti dalle aziende familiari di Spagna, Francia e Germania. A scattare la fotografia del tricolore produttivo è Marco Ballarè, presidente di Mangeritalia, associazione di categoria protagonista nell’evoluzione della contrattualistica e del mondo del lavoro, che incontrando Moneta ha delineato lo scenario di settore e riconosciuto il potenziale, «se declinato alla competitività», introdotto da Dl capitale sulla rappresentanza di lista.
Presidente, ci racconta il vostro ruolo?
«Quest’anno compiamo 80 anni e non ci riteniamo solo un’associazione, ma una comunità, una rete di persone di oltre 45 mila iscritti tra manager, dirigenti, executive professional e quadri che operano nel settore più strategico quello dei servizi che ogni giorno contribuiscono al progresso del Paese: il mondo dei servizi di mercato è il 59% del Pil (73% includendo anche il pubblico) ed è sempre più protagonista dell’economia italiana».
Perché i manager possono fare la differenza?
«La managerialità e la competenza sono tra i principali elementi di cui ha bisogno l’Italia per governare all’interno delle organizzazioni fenomeni come la transizione digitale e AI, transizione ecologica e la riorganizzazione del lavoro. Inoltre, i manager hanno un expertise che molto spesso le Pmi non conoscono. Purtroppo però l’Italia su questo fronte sta dimostrando di essere un passo indietro rispetto alle aziende europee».
In che senso?
«Anche se crescono, i manager privati dal 2008 a oggi sono aumentati del 9,6%, siamo ancora a meno di 1 dirigente ogni 100 dipendenti, contro una media di 2-3 manager dei competitor europei».
Perchè?
«È un questione culturale, che in un certo senso si collega anche al basso numero di quotazioni in Borsa, le aziende faticano ad aprirsi all’esterno per eccesso di controllo, non si “fidano” e non disegnano passaggi generazionali. Questo ne limita moltissimo lo sviluppo. Noi stiamo lavorando come associazione per introdurre una maggiore managerialità nelle imprese facendone comprendere concretamente i vantaggi e per far crescere l’economia e la nazione».
Come legge le norme del Dl Capitali in tema di rappresentanza nei cda?
«Possono essere un potenziale passo avanti fornendo stabilità, e quindi attraendo maggiori capitali, ma solo se le liste sono e saranno orientate secondo un criterio di competenza. Serve competenza, allora sì che i capitali arriveranno».
Che sfide vi riconoscete nel medio termine?
«C’è da lavorare e in questo momento di incertezza economica auspico di svolgere bene il mio lavoro di rappresentanza, ma dando una mano al Paese. Auspico una forte collaborazione tra industria e servizi e una maggiore una maggiore apertura alla competitività.
Non solo parole, ma atti concreti. Come quelli che stiamo realizzando per il mondo femminile. In Italia su oltre 225 mila società di capitale il 67% non ha donne nel proprio cda e solo un’impresa su dieci ha un consiglio totalmente al femminile. Da tre anni abbiamo ideato “Women on board” 2025: un vero e proprio percorso formativo già seguito da oltre 1700 professioniste per cambiare la cultura del paese nel mondo del lavoro».
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