Il risiko bancario può vivere una svolta cruciale nelle aule di tribunale. Mercoledì 9 luglio il Tar si esprimerà sul ricorso di Unicredit contro il decreto ai sensi del Golden Power in virtù dl quale la presidenza del Consiglio e il ministero dell’Economia hanno stabilito prescrizioni stringenti all’Offerta pubblica di scambio su Banco Bpm. Va detto che i pronostici non giocano a favore dell’istituto guidato dall’amministratore delegato Andrea Orcel, non ci sono infatti precedenti finora di un tribunale amministrativo che abbia annullato un decreto con prescrizioni in materia di Golden Power.
Un caso emblematico e recente in tema di ricorsi in tribunale legati al Golden Power in Italia è quello che ha coinvolto Cedacri, società strategica nei servizi It bancari, controllata dal gruppo Ion. Nel luglio 2023 il governo ha esercitato i poteri speciali imponendo due prescrizioni: l’obbligo di destinare i proventi di un prestito obbligazionario da 350 milioni di euro esclusivamente al piano industriale e alla tutela degli asset strategici, e la trasmissione di report trimestrali sull’andamento patrimoniale ed economico. Cedacri ha impugnato il Dpcm davanti al Tar del Lazio, contestando la legittimità delle misure e denunciandone la presunta sproporzione e carenza di motivazione. Con sentenza del 22 maggio 2024, il Tar ha respinto il ricorso, riconoscendo la piena legittimità del decreto: secondo i giudici, le prescrizioni erano proporzionate, motivate e rientravano nell’ampio margine discrezionale che il governo detiene in materia di sicurezza nazionale. La sentenza ha inoltre ribadito che il potere di sindacare del giudice amministrativo su questi atti è limitato alla verifica di eventuali vizi formali o manifesta irragionevolezza, senza entrare nel merito delle scelte politiche o tecniche.
Va da sé, quindi, che molto difficilmente i giudici annulleranno in toto il Dpcm, anche perché se il Tar dovesse uniformarsi agli altri precedenti in materia, il ricorso verrebbe respinto. Una fotografia chiara degli orientamenti della giurisprudenza fino a oggi emerge dalla relazione «Il sindacato giurisdizionale sull’esercizio dei Golden Powers» di Hadrian Simonetti, presidente di sezione del Consiglio di Stato. Tra le righe del documento si fa riferimento tra gli altri all’orientamento che fa capo al giurista Fabio Cintioli, spesso al fianco di Unicredit, il quale ritiene «forse preferibile prendere atto del contenuto sostanzialmente politico delle decisioni sul Golden Power e accettarne la pressoché insindacabilità».
Nel caso Unicredit-Bpm, il magistrato sarà chiamato a vagliare le singole misure secondo un criterio di proporzione e ragionevolezza tenendo però in considerazione il fatto che, in ambito di sicurezza nazionale, il governo ha un’ampia discrezionalità. Tant’è che, scrive sempre Simonetti, la decisione del giudice «sulla proporzionalità, a sua volta, appare più agevole nei casi dove l’esercizio dei poteri speciali conduce al divieto dell’operazione societaria, mentre potrebbe esserlo meno laddove il governo apparentemente non vieta ma prescrive». Proprio come è avvenuto tra Unicredit e Bpm, dove l’operazione non è stata vietata, ma limitata con le prescrizioni su addio alla Russia entro il 18 gennaio 2026, mantenimento per cinque anni del rapporto tra prestiti e depositi e dell’esposizione ai titoli di Stato italiani, oltre alla conservazione dei finanziamenti ai progetti di Piazza Meda.
Anche in Unicredit si ha contezza di incognite e difficoltà, tant’è che lo stesso Orcel in dichiarazioni recenti ha affermato che le possibilità di proseguire sull’Ops di Bpm sono del 20% o anche meno. L’unica speranza, dal punto di vista di Piazza Gae Aulenti, è che il Tar inviti a riscrivere alcune prescrizioni andando a ridurre quei margini di incertezza che potrebbero costare a Unicredit multe fino a 20 miliardi. Una via che, se prendesse corpo, si tratterebbe di una novità assoluta, tant’è che – osserva sempre Simonetti – le aziende solitamente preferiscono alla via giudiziale «richiedere chiarimenti all’Autorità competente in ordine all’esatto perimetro delle prescrizioni disposte, con riferimento al monitoraggio, al fine di attenuarne gli effetti più pregiudizievoli e di allentarne i vincoli». Questa è la strada inizialmente scelta da Unicredit, ma poi abbandonata in carenza di concessioni governative (l’unica sarebbe stata concessa per i pagamenti transfrontalieri) per scegliere il ricorso al Tar con tutte le incertezze che ne conseguono.
Tuttavia, se anche il tribunale sulle prescrizioni più stringenti si esprimesse a favore della banca guidata da Orcel, penderebbe su tutta l’operazione la spada di Damocle del Consiglio di Stato che potrebbe anche ribaltare tutto e farlo in tempi non compatibili con la scadenza del periodo di adesione all’Ops che termina il 23 luglio: anche per questo motivo la decisione straordinaria presa da Consob di sospendere per 30 giorni l’Ops, peraltro avvenuta a maggioranza con voto decisivo del presidente Paolo Savona, non pare essere risolutiva ed è ben difficilmente reiterabile.
In ogni caso, dopo il 9 luglio Unicredit avrebbe davanti a sé due vie: se il quadro si dovesse chiarire a suo favore, potrebbe anche cercare l’affondo e perfino provare un rilancio, dal momento che ancora oggi l’Offerta pubblica di scambio viaggia a uno sconto importante fra il 7 e l’8 per cento. Il tutto però rimarrebbe in ogni caso sub judice, poiché una modifica alle prescrizioni scatenerebbe la reazione del governo che avrebbe la carta del ricorso al Consiglio di Stato. Cosa potrebbe accadere, infatti, a Ops completata, se dopo mesi il Consiglio di Stato ribaltasse la sentenza a favore del governo? Per Orcel tornerebbe prepotentemente lo spettro del monitoraggio e delle multe miliardarie senza più la possibilità di sfilarsi dall’operazione. Per questo l’eventualità più probabile, in caso di sentenza del Tar favorevole a Unicredit, è che si apra una fase di trattativa. Anche perché, a cose fatte, nessuno avrebbe interesse a strappare con l’altro, dal momento che una crisi sistemica indotta da una maxi multa non sarebbe nell’interesse di Orcel (che quanto meno perderebbe la guida dell’istituto) né dello Stato, che si troverebbe costretto a intervenire per salvare l’istituto.
Anche per la grande complessità della situazione, l’ipotesi di un rigetto totale del ricorso, quindi, rimane forse la più probabile e, in tal caso, Unicredit si troverebbe probabilmente costretta a fare una marcia indietro clamorosa.
A quel punto, come affermato di recente dal presidente di Bpm Massimo Tononi, Piazza Meda si troverebbe svincolata dalla passivity rule e sarebbe libera di guardarsi in giro per trovare un nuovo partner. Tra questi ci sarebbe senz’altro Mps, che nel frattempo sta proseguendo speditamente verso l’inizio della sua Ops su Mediobanca (ha appena incassato il via libera della Bce) e poi potrebbe dedicarsi al matrimonio, prevista dal Tesoro nel suo disegno originario di terzo polo bancario alternativo a Intesa Sanpaolo e Unicredit, tra Siena e Bpm. Dal prossimo 9 luglio, in ogni caso, le carte sul tavolo saranno a tutti i giocatori molto più chiar
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