Domanda: è da considerarsi una scultura la banana di Maurizio Cattelan aggiudicata lo scorso novembre da Sotheby’s per 6,2 milioni di dollari e mangiata in diretta dal suo facoltoso acquirente cinese? La risposta è sì, almeno in base ai parametri dell’arte d’oggi per cui, parafrasando la statunitense Rosalind Krauss, “è scultura” qualunque creazione “che occupi uno spazio”, comprese le performance e le installazioni multimediali. Il caso di quella banana (per altro tacciata di plagio) è tuttavia l’ennesima dimostrazione di quanto nel mercato della scultura siano sempre di più le iperboli a guadagnarsi la scena, in un segmento che copre appena il 10 per cento del volume di tutte le transazioni in arte.
«La scultura è quella cosa su cui inciampi mentre indietreggi per guardare un quadro», disse impietosamente il pittore americano Barnett Newman, che pure di sculture ne faceva eccome. La verità ovviamente sta nel mezzo, anche perché i dati parlano di un segmento cresciuto del 33 per cento nell’ultimo decennio, in particolare per le opere del XX e XXI secolo, con un volume di affari di 909 milioni.
Guardando i report delle aste, le aggiudicazioni in dieci anni risultano addirittura raddoppiate, il che significa che in proporzione è calato il prezzo medio per singolo lotto, per singola scultura. Poi però ci sono le iperboli che, per usare una metafora calcistica, definiremmo la “Champion’s League” della scultura, con una classifica che vola dieci spanne sopra la media: parliamo di quei sei-sette autori internazionali che occupano stabilmente la fascia alta del mercato e continuano a sciorinare record. Anche tra i big tuttavia non tutto fila liscio, complice un collezionismo che negli ultimi tempi si è fatto meno spavaldo. L’ultimo “scivolone” è solo di qualche settimana fa quando, all’asta Sotheby’s di New York del 13 maggio, è rimasta clamorosamente invenduta La Grande Tète mince di Alberto Giacometti, il ritratto in bronzo del fratello Diego del 1955 considerato il “top lot” con una stima di 70 milioni di dollari. Comprensibile la delusione dei battitori e del venditore (la Fondazione Soloviev): Giacometti è infatti oggi il leader indiscusso del mercato della scultura, e un altro esemplare di quella Testa era stata venduta nel 2010 da Christie’s per 53 milioni di dollari.
A questo proposito, per i non addetti ai lavori, merita precisare che qualunque scultura può definirsi originale se realizzata per un massimo di nove esemplari; oltre questa quota si parla di multipli che hanno un valore assai inferiore, specie se postumi. «Quello della riproducibilità è un aspetto problematico (non l’unico) che frena il mercato della scultura rispetto alla pittura», dice il critico Valerio Dehò, fondatore di Milano Scultura, la prima fiera italiana dedicata esclusivamente a sculture e installazioni. «Qualsiasi grande maestro è sempre stato falsificabile – spiega – solo che in passato, con le tecniche tradizionali, le copie risultavano sempre un po’ più piccole, mentre oggi, con la digitalizzazione, le riproduzioni sono identiche all’originale. Per questa ragione, ad esempio, grandi istituzioni come il Museo di Rodin vietano le scansioni dei propri capolavori».
La questione non riguarda soltanto i falsi. Oggi la tecnologia robotica è la chiave di volta per la maggioranza degli scultori viventi. «Le tecniche tradizionali sono in deciso declino, e a Carrara i laboratori di marmo lavorano con artisti di tutto il mondo che mandano solo dei progetti poi interamente realizzati in loco; così lo scultore, che una volta scolpiva e lavorava in fonderia, oggi è diventato un copy».
Questa è una delle ragioni per cui la scultura antica resiste e continua a vantare un appassionato collezionismo nelle fiere più prestigiose, come Tefaf di Maastricht-New York, Biaf di Firenze, Brafa di Bruxelles.
Proprio a Maastricht, lo scorso marzo, i riflettori si erano accesi su autentici capolavori del neoclassicismo come le marmoree Tre Grazie di Carlo Finelli in vendita allo stand della galleria romana Antonacci Lapiccirella per 400mila euro; oppure del Rinascimento, come il crocifisso bronzeo attribuito a Michelangelo Buonarroti in vendita a 100mila nello stand di Stuart Lochhead. E poi tante altre chicche, come una statua in bronzo di Osiride (664-332 a.C.) in vendita dal londinese David Aaron poer 475 mila sterline, o come la Testa barbuta romana di divinità, (II secolo d.C.) esposta allo stand di Charles Ede per 100 mila dollari. Commercialmente, però, stiamo parlando di peanuts rispetto alle quotazioni degli scultori da “Champion’s League” del XX secolo che, oltre ad Alberto Giacometti, rispondono ai nomi di: Jeff Koons (un suo “coniglio” in acciaio inox battuto da Christie’s a 91 milioni di dollari), Amedeo Modigliani (una sua “Testa” raggiunse il record di 59,5 milioni), Constatin Brancusi (“La muse endormie” fu aggiudicata a 57,3 milioni), Unknown (l’opera “Guennol Lioness” raggiunse i 57,2 milioni), Louise Bourgeois (un suo monumentale “ragno” in acciao battuto da Sotheby’s a 32,8 milioni). Sulla loro scia, ma a molte spanne, crescono lente ma stabili le vendite dei nostri Lucio Fontana, Arnaldo Pomodoro, Leoncillo, Adolfo Wildt e un outsider del secolo breve, l’impressionista italiano Medardo Rosso, più apprezzato all’estero che in patria.
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