Mercati frammentati, regole disallineate, investimenti che fuggono. L’Europa continua a perdere attrattività e i capitali “fuggono” verso ecosistemi più efficienti, Wall Street in primis. Il report Revamping Capital Markets in Italy and Europe di Assonime punta il dito contro le cause strutturali. Ma propone anche una via d’uscita. Ne parliamo con il direttore generale di Assonime, Stefano Firpo, che rilancia la sfida di un supervisore unico europeo e di un mercato dei capitali finalmente integrato.
Dottor Firpo, il vostro report parte da una fotografia molto chiara: ogni anno, secondo il rapporto Draghi, l’Europa perde circa 180 miliardi di euro di risparmi che vengono investiti fuori dall’Ue. Come invertire la rotta?
«Il problema è europeo: mercati poco capitalizzati, frammentati e poco liquidi. Per cambiarlo serve più integrazione tra investitori istituzionali e più armonizzazione nelle regole e nella vigilanza. Una misura prioritaria, anche se politicamente complessa, è una supervisione unica europea: alcune funzioni oggi divise tra ventisette Authority andrebbero accentrate nell’Esma. Non si tratta di eliminare le autorità nazionali così come la Bce non ha soppresso le banche centrali nazionali, ma di attribuire all’Esma prerogative chiare su grandi emittenti, infrastrutture di mercato e fondi di investimento Ue ed extra Ue».
Come rafforzare il ruolo dell’Esma?
«Serve una governance autonoma: oggi è solo un network senza indipendenza. Bisogna riformarla, darle autonomia e allargare le sue competenze su infrastrutture di mercato, piattaforme crypto e fondi. E si potrebbe immaginare anche una vigilanza più centralizzata sui grandi emittenti sistemici, sopra i 20 miliardi di capitalizzazione. Con meccanismi di opt-out per chi vuole restare sotto la propria authority e opt-in per gli emittenti minori che preferiscono l’Esma».
Non ci saranno resistenze da parte di alcuni Stati membri?
«Sì, soprattutto da paesi come Lussemburgo o Olanda, che applicano regole più leggere. Ma si può partire con una cooperazione rafforzata tra i Paesi “volenterosi” – Italia, Francia, Germania e Spagna. Una volta centralizzata la vigilanza, sarà più semplice anche armonizzare le norme».
Un esempio concreto di armonizzazione possibile?
«L’Opa. Esiste già una direttiva europea, ma è datata e applicata in modo disomogeneo. In Italia, ad esempio, c’è l’Opa di consolidamento, altrove no. Un regolamento unico europeo, supportato da una vigilanza centralizzata, permetterebbe di eliminare queste differenze e favorire l’integrazione».
Come si contrasta il cosiddetto gold plating, ossia le normative Ue irrigidite a livello nazionale?
«È una barriera silenziosa ma potente. Molte norme europee diventano più onerose per effetto di prassi nazionali diversificate. Per questo serve una vigilanza centralizzata e più regolamenti europei, non direttive da recepire. Solo così si riduce quella frammentazione normativa che ostacola il mercato unico dei capitali».
La scarsa attrattività delle Borse europee è un problema noto. Come si porta più capitale sui nostri mercati?
«Oltre alla regolamentazione serve più liquidità. I fondi pensione sono troppo piccoli e frammentati. Credo che in Italia gli asset under management medi di un fondo pensione non superino le poche centinaia di milioni di euro, quindi non sono attrezzati per avere un’interlocuzione attiva sui mercati e investono in maniera passiva, a benchmark sostanzialmente. Siccome nei principali indici l’Europa conta poco, l’Italia conta ancora meno e pesa per il 4% circa sugli indici. I fondi pensione dovrebbero avere dimensioni e competenze adeguate per poter investire di più nelle imprese italiane ed europee».
Ma in Italia ci sono comunque soggetti con dimensioni rilevanti: casse previdenziali, fondi di categoria…
«Vero, ma la frammentazione resta e spesso manca trasparenza. Senza massa critica il potere negoziale è nullo e si finisce per investire in modo passivo su prodotti standardizzati dove l’Italia continua a pesare pochissimo. A volte, poi, si fanno scelte di stock picking che lasciano perplessi, come alcune casse previdenziali che in questi giorni comprano titoli bancari sui massimi storici. Parliamo della pensione di diversi ordini professionali: serve prudenza».
Lei è favorevole a un ruolo più attivo di questi soggetti in Borsa?
«Sì. I fondi pensione dovrebbero investire di più in equity, soprattutto perché – con un approccio life cycle – i trattamenti dei giovani ne beneficiano, come dimostrano numerosi paper. Ma con un metodo professionale e diversificato. Anche il governo può esercitare una moral suasion, non per imporre vincoli di portafoglio, ma per favorire una maggiore allocazione del risparmio verso l’Italia. Come fanno tutti i governi del mondo».
Un altro attore chiave potrebbe essere il sistema bancario, ma l’unione bancaria è ancora lontana. Cosa si può fare?
«L’unione bancaria è essenziale. Oggi abbiamo banche troppo piccole e frammentate: nel debt ed equity capital market dominano operatori extra UE. Le nostre perdono quote perché non hanno scala sufficiente in questi servizi. Le banche devono consolidarsi a livello europeo. Anche per fare più credito. Peraltro, con le nuove regole di Basilea, investire in partecipazioni azionarie è diventato molto oneroso».
Ma il consolidamento bancario è spesso frenato dalla politica.
«Il vero problema è che i mercati bancari restano prevalentemente nazionali. Per migliorare la loro competitività, i servizi e la capacità di erogazione nel credito serve più consolidamento e serve più integrazione a livello europeo».
Anche il fisco scoraggia l’equity, il debito è più conveniente. È un nodo solo italiano?
«Vale in tutta Europa, ma in Italia è più evidente dopo l’abolizione dell’Ace, che aiutava la patrimonializzazione delle imprese. È stato un errore cancellarla. Confindustria ne ha chiesto giustamente il ripristino. La mini-Ires è stata una contropartita modesta per le imprese: 4-5 miliardi persi sull’Ace contro i 400 milioni della mini-Ires. Un rapporto di uno a dieci non mi pare molto favorevole».
Avete evidenziato la necessità di riformare il voto di lista. Come?
«In Italia il problema non è il voto di lista ma il voto su liste bloccate. Si vota l’intera lista, in tutto il mondo si vota one by one. Questo limita le scelte. Proponiamo un meccanismo di opt-out che valorizzi l’autonomia statutaria: se un’azienda vuole votare singolarmente i candidati, perché non può farlo? Succede ovunque, dovrebbe essere possibile anche in Italia».
© Riproduzione riservata