A Wall Street i giganti tech indossano la taglia XXL e la diversificazione diventa un miraggio anche per i fondi. Era il giugno 2023 quando Nvidia toccò per la prima volta il trilione di dollari di valore e già allora c’era chi iniziava a ventilare il rischio bolla AI. Oggi il colosso di Santa Clara vale oltre 4 volte di più (4.400 miliardi) dopo un’ arrampicata verticale che la rende di gran lunga la maggiore azienda al mondo e di conseguenza una presenza ingombrante nei maggiori fondi a stelle e strisce o globali.
Nvidia pesa più di tutto l’equity Giappone
Se l’oltre 8% nell’S&P 500 non stupisce più di tanto, il 5,6% nell’Msci World – che raggruppa oltre 1.300 tra i maggiori titoli azionari mondiali – mostra il paradossi che da sola Nvidia supera l’intero peso del Giappone (5,4%), secondo maggiore mercato azionario dietro Wall Street. Astraendo dal singolo caso, l’Msci World vede un forte sbilanciamento sul settore tecnologico (26% dell’indice) e da soli i primi 10 titoli incidono per oltre un quarto del totale. Una così elevata concentrazione non si era mai vista, neanche ai tempi dello scoppio della bolla internet del 2000 quando sull’S&P 500 i maggiori 10 titoli pesavano ’solo’ il 27% rispetto al 38% attuale, con le prime 8 società che sono tutte espressione del mondo tech. L’euforia sull’intelligenza artificiale ha indubbiamente polarizzato quello che comunque già prima di ChatGpt era un dominio del tech sui mercati, andando però ad acuire la sovraesposizione su singoli titoli o settori. Il Mit di Boston la scorsa settimana ha in parte allertato i mercati avvertendo che solo il 5% di programmi d’investimento delle imprese in AI generativa sta creando valore, mentre nel 95% dei casi non ci sono ritorni apprezzabili. Lo stesso numero uno di OpenAI, Sam Altman, ha avvertito sul rischio che l’entusiasmo degli investitori nei confronti dell’AI sia eccessivo, creando le premesse per una bolla. Al di qua dell’Oceano non c’è un equivalente delle big tech, ma non mancano i settori da copertina. Uno in particolare. Da inizio anno l’indice Stoxx Banks segna un prepotente +70% tra disciplina patrimoniale e nuovi round di risiko; e di conseguenza il peso dei finanziari nei maggiori indici continentali è balzato a oltre il 25%, con picchi del 50% nel caso del nostro Ftse Mib. Da sole Unicredit e Intesa Sanpaolo rappresentano oltre il 30% dell’indice tricolore.
Un mercato eccessivamente concentrato fa sì che l’investitore possa ritrovarsi un portafoglio animato da fondi non così diversificati come si potrebbe pensare. Finché il trend di fondo è rialzista e le big tech, così come le banche in Europa, sfornano risultati record, questa sovraesposizione fa gioco in termini di performance. Se però la tendenza si inverte, l’effetto boomerang può essere doloroso. L’antidoto è dare di nuovo fiato alla diversificazione attingendo a più strumenti. Per chi guarda oltreoceano o all’azionario globale, azzerare la componente tech è quasi impossibile. Quello che si può fare è andare su quei fondi o temi d’investimento che per natura risultano meno sensibili alla tecnologia, quali le utilities. «Un tema di lungo termine che gli investitori stanno cavalcando poco è quello dell’acqua, un sotto segmento delle utility», argomenta Roberta Rudelli, fund selector di UniCredit, che non tralascia come alleati per diversificare meglio il portafoglio anche le infrastrutture, l’healthcare (al netto della parte di biotecnologia), i consumi sia ciclici che non, così come il food. Rimanendo sul mercato americano, una via alternativa è quella di implementare una strategia value che va a comprare quei titoli e settori che risultano più a buon mercato a livello di price to book piuttosto che price earning. «Il problema di queste strategie – sottolinea l’esperta – è che in determinati periodi, come nel 2020-2021, con i titoli growth molto forti, il value può agire da freno alle performance e spesso, soprattutto nel caso dei deep value, ci mette molto tempo a recuperare terreno. Ci sono quindi momenti in cui restano molto indietro. Di contro, aiutano a diversificare».
Strategie anti-concentrazione
Il peso da dare a questi ’cuscinetti’ atti ad ammortizzare l’eccessiva concentrazione dei fondi azionari va calibrato sulla base degli obiettivi che ci si prefigge. «Se si vuole massimizzare la performance è chiaro che i cuscinetti avranno un peso limitato, di contro se l’investitore è più interessato a bilanciare il portafoglio in un orizzonte temporale più lungo, allora l’anima più difensiva può crescere di pari passo con la voglia di una reale diversificazione», spiega Roberta Rudelli che reputa “coerente” in questo frangente una parte difensiva fino al 50% del portafoglio complessivo.
Per evitare l’eccessiva esposizione su singoli titoli possono fare gioco strumenti quali gli Etf equal-weight, che assegnano lo stesso peso ai titoli inseriti nel sottostante a prescindere dalla capitalizzazione di mercato. E la storia dei mercati americani racconta un pattern ricorrente: nelle fasi che seguono l’inizio di un ciclo di tagli dei tassi, l’equal-weight tende a sovraperformare. «I dati dal 1990 lo confermano. Appena la Fed inizia ad allentare, la partecipazione si allarga, le valutazioni delle mid cap si rivalutano, e il mercato smette di galleggiare su pochi nomi», sottolinea Gabriel Debach, market analyst di eToro.
Senza esagerare
All’estremo opposto dell’eccessiva concentrazione del portafoglio sulle big tech o su un determinato settore c’è l’arrivare a escludere quasi in toto quello che è il traino del momento, svuotando i portafogli dalle società tech, che fino a prova contraria sono quelle che stanno segnando tassi di crescita degli utili ben superiori rispetto agli altri settori. «L’uso di strategie equal-weight o di esclusione (oltreoceano sono nati anche Etf che escludono le mega cap, ndr) comporta cambiamenti significativi rispetto a un approccio sulla capitalizzazione», avverte Madeleine Black, associate analyst di Morningstar, riducendo sì la concentrazione ma tagliando completamente fuori dai potenziali ulteriori guadagni di Nvidia & co.
Per gli investitori che prediligono un approccio focalizzato sull’azionario Europa, anche per evitare il rischio valutario, un possibile bilanciamento può arrivare dall’utilizzo di fondi “ex financial”, ossia che non prevedono l’inclusione al loro interno dei titoli finanziari. Un altro binario percorribile è quello di cercare la giusta dose di diversificazione nell’universo bond. Le banche europee emettono tantissima carta e questo porta a escludere il corporate investment grade in quanto porta al concreto rischio di ritrovare gli stessi nomi in un formato diverso, ossia l’azione e il bond delle medesime banche. «Nell’high yield di solito spiccano utilities e industriali, e qualche energy – argomenta Roberta Rudelli – di certo pochi finanziari; un altro segmento che aiuta la diversificazione sono i bond governativi a breve termine, nel range di 1-3 anni o 1-5 anni al massimo, oppure per chi ha una propensione al rischio più spiccata l’equity Asia o l’equity emergente, più volatili dell’Europa ma esposti al settore finanziario con titoli diversi».
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