E’ un fuggi fuggi generale dall’universo dei fondi sostenibili. Dopo anni di crescita, gli investimenti targati Esg, l’acronimo che sta per “Environmental, Social and Governance”, ovvero che si ispirano ai criteri ambientali, sociali e di governance, hanno registrato nel primo trimestre dell’anno deflussi per 8,6 miliardi di dollari. Una netta inversione di tendenza rispetto ai 18,1 miliardi di afflussi di appena tre mesi prima. E a guidare la ritirata, non a caso, sono stati gli Stati Uniti, che hanno evidenziato il decimo trimestre consecutivo di riscatti (-6,1 miliardi). Più che una tendenza sembra una chiara dichiarazione di intenti.
D’altronde è apparso subito chiaro che la strada repubblicana alla Casa Bianca non sarebbe stata lastricata di intenzioni verdi (ma nemmeno sociali): tra i 100 ordini esecutivi firmati nel solo primo giorno di presidenza di Donald Trump uno dei più eclatanti è stato il ritiro degli Usa dall’Accordo di Parigi. Un colpo di spugna su obblighi climatici e finanziamenti internazionali, che ha inevitabilmente scosso anche i mercati. In un clima politico sempre più ostile alle tematiche green, anche gli investitori hanno preferito tirare i remi in barca. Non è più tempo di idealismi. Non è tempo di investire sostenibile, almeno nel breve termine.
Ma la vera sorpresa arriva dall’Europa, vera roccaforte dell’Esg in questi ultimi anni. Per la prima volta dal 2018 – anno in cui si è iniziato a monitorare in modo sistematico l’andamento dei fondi sostenibili – anche il Vecchio continente ha registrato deflussi netti. Nei primi tre mesi dell’anno i riscatti sono stati pari a 1,2 miliardi di dollari, pari a circa 1,06 miliardi di euro, in contrasto con la raccolta netta di 20,4 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre del 2024. Una scossa tellurica, se si considera che i fondi Esg europei erano riusciti a mantenere la rotta anche nei momenti più turbolenti del mercato, come il quarto trimestre del 2023.
La fuga dai fondi sostenibili in Europa ha un sapore diverso rispetto a quella americana, ma è altrettanto significativa. Qui non si parla di ostilità ideologica, ma di un cambio di priorità. In un contesto geopolitico agitato, l’attenzione si è spostata verso la crescita economica, la competitività e la difesa. È notizia di questi giorni l’intenzione dell’Unione europea di rivedere in versione più morbida l’ambizioso Green Deal. A giugno arriverà una nuova proposta legislativa da parte della Commissione Europea, che prevede più flessibilità per i governi nazionali.
Sostenibilità in bilico
Le pressioni politiche non sono però l’unico fattore. Anche l’industria dei fondi Esg si ritrova a fare i conti con le proprie contraddizioni. Performance poco brillanti, soprattutto nei settori legati all’energia pulita, stanno facendo riflettere molti investitori. Il sogno della transizione energetica è costoso, e spesso poco redditizio nel breve termine. In questo scenario nebuloso, «è fondamentale distinguere tra gli investimenti nella transizione energetica, spesso più volatili, e quelli socialmente responsabili, che integrano i rischi Esg in modo più sistemico», puntualizzano gli analisti di Moneyfarm. E precisano: «Anche se l’attuale deregolamentazione potrebbe avvantaggiare le aziende legate ai combustibili fossili nel breve termine, i rischi legati ad altri fattori di sostenibilità, come quelli climatici, tecnologici o reputazionali, non sono certo destinati a scomparire e resterà importante considerarli all’interno delle scelte di investimento». Fatto sta però che al momento gli stessi gestori dei fondi stanno adottando un approccio più cauto nel promuovere le proprie strategie Esg.
Il bollino Esg
In parallelo, si è affacciato un certo scetticismo sulle reali credenziali Esg dei fondi europei. L’ondata di rebranding imposta dalle nuove linee guida dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma) contro il greenwashing ha generato confusione. Alcuni fondi hanno eliminato riferimenti Esg dai loro nomi, altri li hanno rivisti, altri ancora li hanno aggiunti. Ma tutto questo rimescolamento ha intaccato la fiducia degli investitori. «Indipendentemente dal fatto che un fondo sia stato ribattezzato, gli investitori dovrebbero rivalutare i loro fondi per assicurarsi che siano ancora in linea con le loro preferenze», avverte Hortense Bioy, responsabile della ricerca Esg di Morningstar Sustainalytics. Una dichiarazione che sottolinea quanto il bollino verde non era forse una garanzia di sostenibilità così forte. Servono più trasparenza, coerenza e risultati
© Riproduzione riservata