Nato a Milano nel 1969, Guglielmo Manetti è una figura di spicco nel mondo finanziario milanese. Da 30 anni lavora in Intermonte, dove dal 2018 ricopre il ruolo di amministratore delegato. Sotto la sua guida, nel 2021 Intermonte si è quotata in Borsa e ha rafforzato ulteriormente il suo posizionamento come punto di riferimento per gli investitori istituzionali italiani e internazionali nel segmento delle mid & small caps. Da un anno la Sim è entrata nell’orbita del mondo Generali, diventando una sorta di testa di ponte di Banca Generali verso il mondo delle imprese con la missione di risolvere i loro problemi finanziari e di passaggio generazionale.
Manetti, da più parti si levano allarmi per una possibile bolla dei mercati azionari a causa dell’IA, ma per ora i listini ne sembrano estranei. Perché?
«Le voci negative legate ad un presunto effetto bolla si riferiscono soprattutto al mercato americano. Ritengo però che lo scenario macro continui ad essere favorevole alle azioni, grazie anche all’effetto congiunto della doppia leva fiscale, espansiva in ormai gran parte del mondo, e dei tassi, con la Fed che è tornata ad abbassarli in un contesto di impatto inflattivo inferiore rispetto alle attese».
Se la bolla IA dovesse scoppiare che effetti potrebbe avere? Quanto è sostenibile l’attuale concentrazione per l’equilibrio del mercato?
«Dal punto di vista borsistico, il peso dei titoli direttamente legati all’IA è relativamente concentrato, soprattutto sul mercato Usa. Nella maggior parte degli altri settori, e soprattutto al di fuori degli Usa, l’effetto IA si misura in un miglioramento dei processi e dell’efficienza industriale. Quindi, in buona sostanza, in una crescita degli utili, che restano la migliore difesa anche in fasi di eventuale ribasso. Inoltre, a differenza dei cicli precedenti, il proliferare degli investimenti passivi (per esempio gli Etf tematici) sta portando una domanda aggiuntiva che aumenta l’effetto polarizzazione».
I settori più solidi nel medio periodo?
«L’IA e le sue applicazioni resteranno centrali. I settori più esposti ad una fase di espansione del ciclo degli investimenti, in particolare industriali e beni strumentali, continueranno a beneficiarne. Tra i finanziari, il settore bancario, oltre ad essere fortemente patrimonializzato, sta iniziando a godere negli Usa di una deregulation che avrà nel breve un effetto molto positivo sull’attività di settore».
Che cosa pensa dei listini italiani?
«Il forte calo del premio al rischio, misurato da uno spread Btp-Bund stabilmente sotto quota 100, li sta favorendo rendendoli tra i migliori anche quest’anno. Malgrado ciò, il mercato tratta ancora a sconto non pochi settori del listino rispetto ai competitor europei pur offrendo, tra l’altro, dividendi tra i più alti».
Risponde al vero il maggiore interesse per le aziende italiane da parte degli investitori istituzionali?
«Confermo. Ciò anche grazie al fatto che l’Italia è vista come più stabile rispetto ai principali partner europei. Come Intermonte ne abbiamo avuto conferma recente nel nostro principale evento annuale, cui hanno partecipato ben 120 investitori istituzionali internazionali».
Negli ultimi mesi le Pmi ufficialmente quotate sono sembrate più effervescenti di un anno fa. Quali i motivi?
«Spesso vere e proprie piccole multinazionali a gestione familiare, negli ultimi trent’anni queste aziende hanno performato meglio dell’indice principale, a riprova della bontà dei fondamentali e dell’interesse degli investitori. Nel 2022, a causa soprattutto del rialzo dei tassi e della caduta generale delle quotazioni azionarie, il trend si è interrotto. Ma di recente, anche grazie al fatto che riescono a generare buoni utili nel non facile contesto internazionale, l’interesse degli investitori per le società medio-piccole sta effettivamente tornando».
Nonostante ciò, è diffusa convinzione che continuino ad essere sottovalutate rispetto ai fondamentali. Perché?
«Lo sconto a cui le società di minori dimensioni trattano rispetto alle maggiori ha raggiunto quasi il 50%. Il fatto è che negli anni di relativo disinteresse, la loro liquidità è crollata spingendo fuori dal listino ufficiale aziende anche ottime per opera dei fondi di private equity, incoraggiati all’acquisto dalle basse quotazioni. Oggi considero il settore un’ottima opportunità di investimento nel medio termine».
Quali strumenti possono invertire la tendenza ad abbandonare il listino?
«Qualunque iniziativa a supporto della loro liquidità. Del resto, lo stesso governo sembra avere un interesse concreto nel cercare di introdurre dei correttivi che permettano agli imprenditori di usare anche il mercato dei capitali come forma di finanziamento per la loro attività. Sia il Fondo Nazionale Strategico di Cassa depositi e prestiti, che iniziative al sostegno del mondo Piani individuali di risparmio (Pir) possono aiutare a risolvere il problema».
Il Fondo Nazionale Strategico rappresenta un possibile punto di svolta?
«È una iniziativa decisamente interessante. Per tre motivi. Anzitutto ha il merito di portare investitori pazienti e di lungo periodo sul mondo delle quotate italiane, in particolare casse e enti previdenziali che finora sono stati sostanzialmente assenti rispetto a quanto avviene normalmente in altri Paesi europei. In secondo luogo, potendo partecipare alle Ipo, il Fondo Nazionale potrà aiutare gli imprenditori che cercano capitale per finanziare i loro investimenti».
Il terzo motivo?
«Agendo come operatore sul mercato, il Fondo potrà contribuire a migliorare il tema dell’illiquidità del segmento mid-small».
Nella sua visione, a questo proposito occorre più Stato o più mercato?
«Uno Stato che aiuti le aziende a reperire capitali per la crescita è sicuramente benvenuto. Ricordiamo l’esperienza dei Pir, che grazie a un incentivo fiscale è riuscita a portare sul mercato italiano quasi 20 miliardi di euro tra il 2017 e il 2019. In questo senso, sia il Fondo sia le iniziative di promozione dell’educazione finanziaria vanno nella giusta direzione.
In un Paese di Pmi familiari, cosa spinge gli imprenditori ad aprirsi a investitori esterni nel momento del passaggio generazionale?
«I piccoli e medi imprenditori italiani stanno vivendo un delicato momento di passaggio generazionale, spesso valutando l’apertura del capitale (a fondi di private equity o alla Borsa) per accelerare la crescita. Optare per i fondi potrebbe però comportare la perdita della governance nel tempo, la quotazione consente invece di mantenere il controllo, pur nel rispetto di regole di trasparenza. Esistono storie virtuose di aziende familiari cresciute con il mercato, coniugando controllo e disponibilità di capitali per la crescita. Un circolo virtuoso che eviterebbe a buona parte del sistema industriale italiano di finire in mano a investitori finanziari, spesso esteri, con obiettivi di rendimento più che di politica industriale».
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