Le banche non sono mai state nelle corde di Giorgia Meloni. Né la sua evoluzione politica sembra averne migliorato la considerazione. Si è avuto prova di ciò nell’agosto 2023 quando, come una mossa fulminea, le ha colpite con la discutibile tassa sui cosiddetti extraprofitti, poi di fatto semi-rientrata per il gran lavoro delle lobby parlamentari che ne hanno dimostrato la non ragionevolezza. Ma se più avanti con alcuni banchieri la premier ha pure familiarizzato, nei confronti di Andrea Orcel sembra nutrire tuttora sentimenti non proprio affettuosi. Sarà perché nelle stanze del Tesoro ancora brucia lo schiaffo subìto nel 2021 dal ceo di Unicredit a conclusione della tormentata trattativa per la cessione di Mps (sebbene oggi in Via XX Settembre si dicono felici per quell’epilogo); sarà perché con il lancio dell’Ops sul Banco Bpm ha di nuovo scombinato i piani del Tesoro che ambiva costruirvi attorno il terzo polo bancario; sarà per il piglio muscolare che Orcel nemmeno prova ad attenuare anche quando servirebbe prudenza, sta di fatto che dalle parti di Palazzo Chigi il banchiere di Piazza Gae Aulenti viene guardato come si guarda a un pericoloso raider meritevole di attenzione speciale per le sue capacità destabilizzanti.
La diffidenza
Un atteggiamento tuttavia ingeneroso se paragonato all’alta considerazione che di lui si ha ai vertici del mercato finanziario europeo, dove non mancano banchieri altrettanto spregiudicati e dove le battaglie cruente per la conquista di nuovi target fanno parte del contesto. Evidentemente la diffidenza che verso di lui mostrano Gaetano Caputi, capo di gabinetto della presidenza del Consiglio, e Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, gli ha creato attorno un’aura di sospetto che di onda in onda si è trasferita a gran parte del governo. Ma sbaglia chi pensa che sia stato il pregiudizio a dettare le rigide condizioni poste a Unicredit nell’ambito del Golden Power sulla scalata a Piazza Meda. L’impianto di quel Dpcm si fonda infatti sul Regolamento Ue 2029/452 che delimita lo spazio degli investimenti esteri diretti nell’Unione; non si tratta, perciò, dell’applicazione esasperata di una legge italiana, come qualcuno ha scritto.
Vale però interrogarsi se la condizione in cui versa Unicredit meriti il ricorso al Regolamento Ue, perché è proprio su questo punto che le opinioni divergono tra chi ritiene che la scelta del governo sia adeguata e chi invece pensa che sia stato compiuto un sopruso, che dietro il decreto si celino acredini personali se non addirittura propositi che sconfinano nel concetto di concorrenza. Perché è indubbio che se Unicredit dovesse aderire pedissequamente alle prescrizioni del governo, trasformerebbe d’un colpo la scalata a Bpm in un’operazione suicida; mentre qualora intendesse non rispettare le prescrizioni equivarrebbe alla rinuncia tout court del progetto di scalata. Ed è fatale che qualora la banca di Piazza Meda fosse liberata dalla minaccia di conquista da parte di Unicredit, tornerebbe ad avere un ruolo centrale nella costruzione del terzo polo bancario (insieme a Mps e Mediobanca) che – sia detto per inciso – resta nelle aspirazioni del governo.
Fuga da Mosca
C’è però un aspetto sul quale merita riflettere, e che in certa misura può giustificare la dura presa di posizione di Palazzo Chigi. Ed è una frase contenuta nel Dpcm laddove si legge che il ministero dell’Economia «ritiene di adottare misure rigorose e prudenti per evitare il rischio che il risparmio raccolto da Banco Bpm sia coinvolto in operazioni a vantaggio della Russia». Ora, se chiedete lumi in proposito a fonti vicine a Unicredit vi sentirete rispondere che l’istituto ha da tempo intrapreso passi concreti per cessare le attività in Russia: tanto è vero che, sempre secondo le fonti, i prestiti e i depositi presso la filiale moscovita sono calati di quasi il 90% rispetto al primo trimestre 2022, quando ebbe inizio l’invasione in Ucraina. Restano ancora alti invece i pagamenti transfrontalieri, per ora ridotti solo del 64%, sui quali comunque si sta lavorando. Ma vi sentirete anche dire che, vista l’emergenza sanzioni, non è facile individuare un compratore – che non sia compromesso con le attività di guerra – pronto ad acquistare la filiale così svuotata, soprattutto se manca il via libera del Cremlino.
Difficoltà che paiono oggettive, sebbene vale ricordare che altre realtà italiane operanti nel 2022 a Mosca, come per esempio Intesa Sanpaolo ed Enel, hanno cessato da tempo e a caro prezzo le loro attività nella capitale russa, nel rispetto delle sanzioni imposte dall’Occidente. Dunque, non si comprende perché – se non per mere ragioni di profitto – Unicredit non si sia adeguata per tempo. Una posizione inaccettabile per il ministro Giorgetti che, a quanto si apprende, proprio per l’impuntatura della banca guidata da Orcel avrebbe subìto qualche indesiderato sguardo di troppo durante i periodici summit internazionali. Come sembra sia accaduto mercoledì 23 a Washington a margine dei lavori del Fondo monetario, con il ministro del Tesoro americano Scott Bessent che, guardando negli occhi alcuni colleghi, ha precisato: «Desidero inviare un messaggio forte sull’Ucraina: nessuno che abbia finanziato direttamente o indirettamente la macchina da guerra russa potrà beneficiare dei fondi destinati alla ricostruzione dell’Ucraina».
Libero mercato
Dunque, se davvero Orcel intende proseguire sulla strada che porta a Piazza Meda, in qualunque formula si possa chiudere quell’operazione, nelle interlocuzioni che probabilmente avrà con Palazzo Chigi e con il ministero dell’Economia nel tentativo di mitigare le prescrizioni del Golden Power, deve essere pronto a fornire solide garanzie sul capitolo Russia. Insomma, deve compiere un netto cambio di passo.
Un cambio di passo che è sembrato intravedere già giovedì 24 quando il rappresentante di Unicredit ha espresso il suo voto a favore della “Lista Caltagirone“ durante l’assemblea per il nuovo cda delle Generali.
Che cosa ha spinto Orcel nella direzione opposta a quella di Mediobanca? Chi lo conosce bene sostiene che dietro questa scelta ci sia anzitutto la convinzione che chi rappresenta il 52% del capitale non può non tenere conto della volontà del 37%, due grandezze che non possono sottrarsi al compromesso. Negare il compromesso quando i numeri lo impongono, come d’abitudine accade nell’emisfero Mediobanca-Generali, significa negare il mercato. E per un banchiere che esalta quotidianamente la funzione del libero mercato, con parole e gesti, tutto ciò è inaccettabile. Inoltre, come non vedere in Orcel anche un interesse opportunistico, che va oltre l’esito temporaneo, peraltro ampiamente previsto, dell’assemblea triestina: un primo tempo che nel giro di pochi mesi potrebbe rivelarsi quella “Vittoria di Pirro“ che Moneta ha anticipato una settimana fa. Ottobre non è lontano, e per allora molte cose saranno cambiate e nuove opportunità si saranno palesate.
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