Con 114 miliardi di patrimonio le Casse di previdenza inevitabilmente sono guardate con interesse nel sistema finanziario. Ma il loro dinamismo talvolta fa alzare il sopracciglio. Quando un paio di settimane fa Enpam ha annunciato di essere salita all’1,98% nel capitale di Mediobanca è stato inevitabile pensare a una volontà esplicita di partecipare a uno dei più intricati episodi del risiko bancario in atto. A prescindere da quello che accadrà il 16 giugno (quando si terrà l’assemblea di Mediobanca) è giusto rammentare che il caso Enpam non è isolato. Anche Enasarco avrebbe raggiunto una quota vicina al 2% nel capitale di Piazzetta Cuccia. Un altro 1% è nel portafoglio di Cassa Forense: in questo caso si tratta di un ingresso nel capitale precedente all’attuale scontro tra azionisti. Medici, agenti di commercio e avvocati hanno le loro pensioni appese al futuro di Nagel e soci?
Sarebbe esagerato dirla così, ma sarebbe ragionevole chiedersi perché degli enti previdenziali di primo pilastro, cioè sostitutivi dell’Inps per i propri iscritti, scelgono di schierarsi in un confronto che potrebbe chiudersi con significative minusvalenze.
Non è la prima volta. Anche nel capitolo Bpm-Unicredit le Casse hanno giocato – e stanno giocando – un ruolo non del tutto marginale e fortemente di parte (contro Unicredit). Qui si aggiunge Inarcassa, oltre a Cassa Forense ed Enasarco. Enpam, attraverso il suo presidente, Alberto Oliveti, siede addirittura nel cda del Banco. Tutto normale? Sì e no. Le partecipazioni delle Casse nel capitale delle banche è in qualche modo comprensibile. «Anche un modo per avvicinare i nostri iscritti a qualche vantaggio o agevolazione nel credito per qualche professionista» è il commento offerto da una delle grandi Casse. È opportuno ricordare che sono cinque gli enti che per dimensione, numero di iscritti e patrimonio possono ritagliarsi un ruolo da protagonista nel sistema finanziario: Enpam, Inarcassa, Cassa Forense, Cassa Commercialisti ed Enasarco. Le altre sono piccole, ma non meno imprevedibili nelle loro scelte di investimento.
La questione è sensibile.
Le Casse di previdenza “private o privatizzate” svolgono per circa 1,6 milioni di professionisti le funzioni che l’Inps svolge per tutti i lavoratori dipendenti: assicurare la pensione. Con i contributi riscossi si deve provvedere a investimenti capaci di generare rendimenti adeguati al pagamento dell’assegno previdenziale. Investitori istituzionali con la necessità di assicurare prestazioni certe e congrue. Quando non ce la facessero – come è successo per l’Inpgi – si finisce nelle braccia del grande papà Inps (che è maschile, visto che la “I” sta per Istituto).
La crisi demografica metterà a rischio l’equilibrio a tendere di molte Casse. Alcune mostrano già il fiato corto: troppi pensionati, rispetto ai professionisti in attività. Anche la media la dice lunga sull’evoluzione “sostenibile” delle Casse: tra il 2022 e il 2023 i pensionati sono aumentati dell’8%, gli attivi sono calati dello 0,36%. La forbice si allarga. Negli ultimi 19 anni gli iscritti over 60 sono quasi raddoppiati; quelli sotto i 40 sono passati dal 40% al 25% del totale. Non a caso l’Enpam offre incentivi ai medici che procrastinano l’incasso della loro pensione.
In questo contesto demografico irreversibile, la scelta degli investimenti quando può definirsi opportuna, da “pater familias”? Proprio in questi giorni la Commissione Bicamerale di controllo sugli enti previdenziali ha sfornato un suo attento rapporto sul tema. Dati anonimizzati, per non fare una classifica tra buoni e cattivi investitori, ma tutti orientati a dire che «il rendimento cumulato dal sistema Casse non offre ritorni molto diversi da quelli del Btp trentennale», commenta l’onorevole Alberto Bagnai, presidente della Commissione. E tutto ciò, nonostante la pletora di advisor ingaggiati per suggerire e orientare gli investimenti.
Le scelte di questi consulenti «si dimostrano quindi convenzionali e conservative – aggiunge Bagnai – senza significative differenze tra grandi e piccole Casse. Era lecito attendersi comportamenti difformi tra Casse, in relazione ad esempio all’età dei loro iscritti. Ci sono casse giovani che hanno iscritti professionisti più giovani della media. In questo caso poteva essere privilegiato un approccio più aggressivo al mercato, per ottimizzare i contributi raccolti, in attesa di avere pensionati da gestire. Invece no, non c’è correlazione significativa tra rischio e rendimento».
Proprio su questa opportuna azione di rischio fa leva la richiesta insistente perché le Casse possano investire una parte dei loro ricchi patrimoni su quell’economia reale che sarà illiquida, ma che potrebbe garantire rendimenti significativi, senza esporsi a speculazioni esterne al mercato e orientate da scelte politiche.
La fotografia offerta dal rapporto della Bicamerale restituisce i dubbi sulla governance (chi decide e come decide gli investimenti) al centro dell’annosa attesa del decreto ministeriale che dovrebbe (da più di dieci anni) indicare linee di comportamento sugli investimenti, se non uniformi, almeno compatibili. Invece la stessa redazione dei bilanci denuncia una curiosa difformità. Tutto da accettare sull’altare della privatizzazione della previdenza?
La dimensione privatistica, che sta alla base dell’autonomia delle Casse, sfida talvolta il buon senso. Enasarco addirittura è finita per essere azionista dell’Arezzo Calcio, attraverso un groviglio di partecipazioni, la cui flessibilità costringe l’ente – da anni – a una continua azione legale di una parte dei vertici contro un’altra. Con buona pace degli iscritti e delle loro pensioni.
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