In Italia, come in Europa, ci sono molti grandi settori in crisi: auto, siderurgia, telecomunicazioni, tra i tanti. Spesso non per ragioni legate alle singole aziende che li rappresentano, quindi a storie aziendali fallimentari, ma per le trasformazioni che una certa industria sta attraversando da un punto di vista digitale e tecnologico. Francesco Caio, già ai vertici di Omnitel, Alitalia, Poste e Saipem – e forte quindi di un’esperienza in grandi aziende in settori chiave dell’economia del Paese – decifra, a colloquio con Moneta, le politiche del lavoro in Italia, le scelte impossibili, ma a volte necessarie di una classe dirigente sempre più spesso ancorata a una tutela a tutti i costi che, forse, così come disegnata, non funziona più.
Ingegner Caio, sempre più aziende fanno fatica a sostenersi autonomamente e chiedono di avere accesso alla cassa integrazione. Cosa succede al sistema Paese?
«Le imprese oggi sono in un contesto di fortissima innovazione. Il ciclo di vita dei prodotti si è accorciato rispetto a un secolo fa ed è in atto una sfida strutturale senza precedenti. E poi innegabile che l’innovazione ha ristretto il numero di persone da impiegare nei processi. Inoltre, in alcuni settori, come quello dell’auto, c’è stato un cambio di paradigma che è stato nel tempo trascurato e che ora presenta il conto».
Quelli dell’ex Ilva e di Stellantis sono due casi eclatanti. C’è da parte di chi gestisce questo tipo di aziende una tendenza ad “adagiarsi” sui sussidi statali?
«Gli ammortizzatori sociali sono un fatto positivo, ma se inseriti in una visione chiara. In caso contrario sono solo un alibi per non gestire il cambiamento. La cassa integrazione deve essere un ponte tra l’azienda di oggi e quella di domani. Se si deve traghettare l’impresa attraverso una trasformazione produttiva e tecnologica può essere un valore, ma in caso contrario è un male per tutti: contribuenti che pagano il conto, imprese che rimangono ferme e lavoratori che per troppo tempo stanno in un mercato stagnante dove le competenze invecchiano».
Che spesso non sia così in Italia lo dimostra il gap registrato tra le ore di cassa autorizzate e ore effettivamente utilizzate.
«Esattamente, quelle utilizzate sono appena il 20% in media sul totale e questo ci fa capire che anche le grandi aziende fanno un uso spurio degli ammortizzatori che diventano una sorta di polizza assicurativa in un sistema instabile».
Perché è così difficile licenziare in Italia, anche di fronte a un’impossibilità strutturale di mantenere lo stesso numero di addetti? Il nostro mercato non è abbastanza flessibile per favorire un ricollocamento naturale?
«Il licenziamento non è né nella cultura italiana, né in quella europea. Il nostro sistema è ancora troppo rigido perché si possa alleggerire le aziende come negli Stati Uniti senza alti costi sociali. In tutta Europa fanno poi la loro parte importante i sindacati. Noi non abbiamo né la flessibilità del mercato del lavoro a stelle e strisce, né la fame di crescere dei mercati asiatici».
Come se ne esce senza rimanere nelle sabbie mobili di un mondo del lavoro per certi versi “fuori mercato“?
«Le politiche attive del lavoro devono essere progettate e davvero attivate e vanno accompagnate da incentivi per l’innovazione. Il sistema dovrebbe avere una scossa per affrontare i cambiamenti in atto. E la politica industriale dovrebbe iniziare a prevedere l’emorragia di dipendenti che nei prossimi anni coinvolgerà in maniera crescente molti settori in evoluzione. Ma siamo ancora in un mondo dove manca la volontà di ricollocare e, guarda caso, il venture capital non decolla: sono due facce della stessa medaglia».
Esiste in Europa un paese virtuoso in termini di politiche del lavoro? O c è un modello a cui ispirarsi?
«La Danimarca è un caso spesso citato, con la sua ‘flexicurity’: licenziare è semplice ma il lavoratore non resta quasi mai scoperto, perché ha indennità forti e soprattutto politiche attive che lo riportano presto al lavoro. Come altri sistemi di welfare scandinavi non è facile esportarlo, ma offre spunti interessanti su come triangolare flessibilità dell’impresa, tutela del lavoratore, politiche attive del lavoro. Oggi però, anche di fronte agli impatti dell’Intelligenza Artificiale occorre pensare a nuovi modelli, che mirano a proteggere la persona e non il posto. E l’Italia potrebbe ambire per storia e competenze ad un ruolo guida in questo percorso. Penso ad esempio alla nuova strategia di welfare generativo dell’INPS che grazie alla digitalizzazione potrà supportare le persone in tutto il loro percorso lavorativo e non solo al momento della pensione».
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