Un esercito di 1,4 milioni di Neet, ovvero giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano (in inglese, “Not in Education, Employment or Training”). Una cifra che vale al nostro Paese il secondo peggior posto in Europa e che solleva interrogativi profondi sul futuro di un’intera generazione e dell’economia del Paese. E’ la fotografia scattata al Forum Teha che si è aperto oggi a Cernobbio (Como) e prosegue sino a domenica prossima.
Giovani inattivi e abbandono scolastico
Nonostante una lieve riduzione rispetto a dieci anni fa (quando erano oltre 2 milioni), i numeri restano allarmanti: il tasso di Neet in Italia è del 15,2%, ben al di sopra della media Ue (11%) e ancora lontano dall’obiettivo del 9% fissato per il 2030. Di questi, 453mila giovani sono del tutto inattivi: non cercano lavoro e non frequentano alcuna attività formativa. Il fenomeno colpisce soprattutto le donne (69%), il Mezzogiorno (46%) e chi ha un basso livello di istruzione (42%).
Ma i segnali d’allarme non finiscono qui. La dispersione scolastica è un altro nodo critico: il 9,8% dei giovani italiani tra i 18 e i 24 anni ha lasciato la scuola prima del diploma, pari a circa 408mila ragazzi. Il dato, che colloca l’Italia ottava in Europa per dispersione scolastica, è ancora più grave tra i giovani di origine straniera: abbandona il 15% dei cittadini europei residenti in Italia e addirittura il 27,4% di quelli provenienti da Paesi extra-Ue.
“L’abbandono scolastico – ha commentato questi dati Valerio De Molli, amministratore delegato di Teha Group – apre la strada alla povertà educativa, all’emarginazione sociale e, nei casi più gravi, al coinvolgimento dei minori in attività illegali o sotto il controllo di ambienti criminali”, riprendendo la dichiarazione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile.
Il fenomeno cervelli in fuga costa oltre 5 miliardi
Nel frattempo, ogni anno l’Italia “perde” oltre 37mila laureati, attratti da opportunità migliori all’estero. Un esodo che, secondo i calcoli del Forum, costa al Paese circa 5,1 miliardi di euro all’anno.
E non sorprende, considerando che solo il 31,6% dei giovani italiani è laureato, un dato che ci relega al terzultimo posto in Europa. Il gap rispetto a Paesi come Irlanda (qui i laureati sono il 65%) e Francia (53%) è abissale. Ancora peggio se si considerano i giovani stranieri residenti in Italia: solo il 13,4% ha una laurea, contro il 37,9% della media europea.
Anche la formazione continua è un punto dolente: solo il 35,7% dei lavoratori italiani partecipa ad attività di aggiornamento professionale, contro il 46,6% della media Ue. Un ritardo che pesa sulla competitività del sistema e sulla capacità di adattarsi alle trasformazioni del mondo del lavoro.
Italia unico Paese Ocse dove salari sono diminuiti
E poi c’è il nodo dei salari. In un contesto globale in cui i redditi medi reali crescono, l’Italia rappresenta un’anomalia: è l’unico Paese Ocse in cui gli stipendi sono diminuiti rispetto al 2000. Nel 2023, il salario medio reale risultava inferiore del 3,5% rispetto a ventitré anni prima. Nel frattempo, nella media Ocse i salari sono cresciuti del 17,8%, mentre negli Stati Uniti addirittura del 27,4%. Un trend che alimenta la sfiducia tra i giovani: uno su due teme di finire in un lavoro sottopagato o precario a tempo indeterminato.
La sfida è chiara, conclude De Molli: “Investire nella formazione del capitale umano rappresenta la leva decisiva per garantire la stabilità dei sistemi economici e offrire alle nuove generazioni un futuro prospero”.
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