Quando quasi cinquant’anni fa venne adottata la Riforma sanitaria (la 833/1978) lo Stato si propose di fare tutto da sé, interrompendo la consolidata abitudine di integrarsi con il sistema delle mutue. Era sicuramente una sanità disordinata, forse con troppi soggetti in azione, certamente con grandi disparità di trattamenti. Il principio ispiratore della riforma di allora era uno: dare a tutti i cittadini italiani una sanità “universalistica”, gestita in maniera coerente e uniforme.
Dopo cinquant’anni si è capito che qualcosa è andato storto. A poco sono servite le riforme bis (De Lorenzo, 1992) e ter (Bindi, 1999). La regionalizzazione ha finito per dare il colpo di grazia all’idea di una sanità uniforme nel Paese. Non si capirebbe il fiorente “turismo sanitario” e la manifesta insoddisfazione dei cittadini di fronte al servizio sanitario nazionale (Ssn): i due terzi degli italiani lo giudicano inadeguato, soprattutto per le liste di attesa bibliche (per esami diagnostici, visite specialistiche e interventi chirurgici), che di fatto impediscono l’esercizio del diritto alla salute. L’unico gradimento spetta al medico di base: secondo un sondaggio Swg del mese scorso la sua funzione è apprezzata dal 61% degli italiani, mettendolo saldamente in testa alle prestazioni del Ssn. E c’è chi sostiene, a ragione, che «il medico di famiglia è la quintessenza del servizio pubblico erogato da privati».
Ecco la parola a lungo proibita nell’orizzonte dei servizi per la salute: privato. Peccato che lo Stato – insieme alle Regioni – non ce la faccia più. La demografia impone una rivisitazione complessiva del welfare, in tutti i Paesi occidentali. Soprattutto e prima di tutto in quelli che hanno scelto la via più o meno integrale del welfare state. La questione di sicuro non si risolverà con il decreto Liste d’attesa: anche con le migliori intenzioni non bastano i poteri sostitutivi per soddisfare i bisogni di salute degli italiani. Il problema sono le Regioni? Anche. Il problema sono le risorse finanziarie? Non solo.
Occorre avere il coraggio di dirlo con chiarezza: a differenza dell’altra grande partita del welfare, ovvero le pensioni, la salute non è solo un problema di risorse finanziarie. Lo diceva tanti anni fa Tiziano Treu: i servizi sanitari dipendono anche – soprattutto? – dall’organizzazione, quindi dall’efficienza amministrativa, dalla gestione.
Alberto Oliveti, medico, presidente della cassa di previdenza dei medici, Enpam (e dell’associazione di tutte le Casse, Adepp) usa la metafora della sedia: «Il sistema sanitario ha bisogno di quattro gambe. Le risorse finanziarie sono solo una delle quattro gambe. Poi ci vuole tecnologia, strutture e organizzazione. Poi c’è il tema della qualità della seduta. Facciamo una sedia o uno sgabello? Lì interviene il fattore umano, quindi il peso della professione medica». E aggiungiamo anche di quella degli infermieri.
Il finanziamento e il sotto-finanziamento della Sanità, ma insieme al problema della carenza di personale sanitario e al rapporto fra strutture pubbliche e private nell’erogazione delle prestazioni costituiscono le priorità da affrontare: lo dicono in molti, lo ha recentemente cristallizzato una ricerca condotta da Censis e Italiadecide, con il contributo di Intesa Sanpaolo. Occorre tracciare un percorso di superamento dell’attuale disarticolazione del Servizio sanitario nazionale, anche attraverso una più efficace collaborazione fra pubblico e privato. «L’obiettivo è creare un ecosistema sanitario centrato su prevenzione, digitalizzazione e accessibilità alle cure, operando in sinergia tra pubblico e privato per migliorare la qualità dei servizi offerti ai cittadini», sostiene Massimiliano Dalla Via, amministratore delegato e dg di Intesa Sanpaolo Protezione.
Oggi il privato in sanità è essenziale. Punto. Se le risorse a disposizione del Ssn (attraverso la fiscalità generale) sono circa 136 miliardi, ci sono altri 40-45 miliardi di spesa privata: il 50% destinata alla diagnostica e l’altro 50% rivolto alla spesa farmaceutica e per presidi medico-sanitari. Peccato che solo l’8-10% di questa spesa privata sia intermediata, quindi assai poco ottimizzata. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di spese dirette, di tasca propria: non a caso si dovrebbe quantificare anche una quota non irrilevante di nero. Eppure, fondi e mutue aumentano. Lo dicono i numeri dell’Anagrafe del ministero della Salute che registra i fondi di sanità integrativa.
Nel corso degli ultimi anni, il numero dei fondi sanitari registrati è cresciuto, partendo dai 267 del 2010 ai 324 del 2023, andando a coprire poco più di 16 milioni di iscritti. Tanti, ma ancora pochi, di fronte alla popolazione italiana. Riecco le mutue, sotto altra forma. Il welfare aziendale è diventato il veicolo principale di integrazione sanitaria. Sempre più essenziale, visto che i servizi di sanità integrativa sono ormai le forme di benefit più gradite dagli italiani. Lo certifica da tempo l’Osservatorio Sanità, che Nomisma conduce per UniSalute. Il rimborso delle spese per visite ed esami è il benefit più popolare, con ben il 71% degli intervistati che ne ha usufruito. Tuttavia, solo il 45% delle aziende include la sanità integrativa nel proprio piano di welfare. Tra i lavoratori che ancora non beneficiano della sanità integrativa, ben tre su quattro (75%) affermano che vorrebbero venisse introdotta nella loro azienda. Avere dei servizi sanitari inclusi nel proprio contratto di lavoro, dunque, risulta un’opportunità sempre più interessante, in un contesto in cui solo l’8% degli italiani crede che in futuro il sistema pubblico potrà rispondere da solo a tutti i loro bisogni di salute. Parola dell’Osservatorio UniSalute.
C’è bisogno di un grande patto tra pubblico e privato, con il concorso del sistema mutualistico assicurativo, che tenga conto (e favorisca) l’impegno delle aziende nella stipula dei contratti di lavoro (ma non bisogna dimenticare la necessità di integrare forme di sanità per i pensionati) e senza pregiudiziali ideologiche. Con una iniezione di pragmatismo che trasformi i Lea (Livelli essenziali di assistenza) in Leeaa (con l’aggiunta di una “e” per esigibili, e di una “a” per appropriata), come suggerisce Oliveti. E magari, prima o poi, anche senza sdrucite pretese territoriali: regionali, per chi voglia capire meglio.
© Riproduzione riservata