L’Italia si prepara ad affrontare un nuovo innalzamento dell’età pensionabile, ma resta tra i Paesi europei dove si lavora per meno anni nel corso della vita. Un contrasto che emerge chiaramente dai dati diffusi da Eurostat e dalla Ragioneria generale dello Stato, e che mette in luce un nodo strutturale del nostro mercato del lavoro.
Dal 2027 l’età per andare in pensione tornerà a salire anche se di un solo mese. Dai 67 anni attuali si passerà a quasi 69 nel 2050, fino a raggiungere i 70 anni nel 2067. Una tendenza che, almeno sulla carta, dovrebbe allungare la vita lavorativa degli italiani. Ma la realtà racconta una storia diversa.
Un’Europa che lavora più a lungo
Negli ultimi dieci anni, la durata media della vita lavorativa nell’Unione Europea è cresciuta da 34,9 a 37,2 anni. Anche l’Italia ha visto un piccolo miglioramento (+2,1 anni), ma resta indietro: la carriera lavorativa media si ferma a 32,8 anni, una delle più brevi del continente, davanti soltanto alla Romania.
Il divario geografico è netto. Nei Paesi del Nord Europa – come Svezia, Danimarca o Paesi Bassi – la vita lavorativa supera facilmente i 40 anni. Nel Sud e nell’Est, invece, le carriere sono più corte e spesso più frammentate.
Le donne
Il ritardo italiano è ancora più evidente se si guarda alla partecipazione femminile. In molti Paesi baltici le donne lavorano più a lungo degli uomini; in Italia, invece, la distanza resta abissale: nove anni di differenza. Le lavoratrici italiane trascorrono in media solo 28,2 anni nel mercato del lavoro, il dato più basso d’Europa.
Le radici del paradosso
Secondo gli esperti, questa apparente contraddizione – età pensionabile alta e carriere brevi – affonda le radici in fattori culturali e strutturali. “Si entra nel mondo del lavoro troppo tardi”, osserva Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt. I percorsi scolastici e universitari più lunghi rispetto alla media europea ritardano l’ingresso nel mercato del lavoro. A questo si aggiungono anni di precarietà, contratti a termine, tirocini e periodi di inattività che non producono contributi.
Il lavoro sommerso, che coinvolge oltre tre milioni di persone e vale circa il 9% del Pil, riduce ulteriormente la durata ufficiale della carriera. E anche i prepensionamenti, ancora diffusi, contribuiscono ad accorciare la vita lavorativa effettiva. L’Inps stima che siano oltre 16 milioni gli italiani che percepiscono una pensione; circa 400 mila di loro la ricevono da più di quarant’anni, spesso dopo periodi contributivi molto brevi.
Un equilibrio sempre più fragile
L’Italia, dunque, si trova stretta tra due estremi: un sistema pensionistico che alza continuamente l’asticella anagrafica e un mercato del lavoro che non riesce a garantire percorsi professionali lunghi e continui. Un equilibrio precario che rischia di pesare non solo sulle nuove generazioni, ma anche sulla sostenibilità futura del sistema previdenziale.
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