“Gentile Alberto, grazie per aver sottoscritto un abbonamento Microsoft 365 Personal. Desideriamo informarti di un cambiamento che verrà presto applicato a questo abbonamento. Microsoft Corporation aumenterà il prezzo dell’abbonamento da 69,99 € a 99 € per anno. Il tuo abbonamento si rinnoverà automaticamente al prezzo di 99 € a meno che non lo annulli almeno un giorno prima“. La stangata targata Microsoft arriva via mail, un po’ nascosta tra gli aggiornamenti di sicurezza e i messaggi di «miglioramento dell’esperienza d’uso». Non bastavano carrelli della spesa in perenne rincorsa, anche Microsoft ci mette del suo, rincarando del 43% il conto per i milioni di utenti italiani che utilizzano Word, Excel e PowerPoint, la suite di app incluse nell’abbonamento 365, l’ex pacchetto Office.
Il colosso di Redmond giustifica l’impennata del listino con l’aggiunta del suo assistente di intelligenza artificiale Copilot. Una rimodulazione forzata dell’offerta che costringe l’utente a sborsare 30 euro in più per un servizio che non ha chiesto e di cui probabilmente non ha bisogno.
Milioni di studenti, professionisti e piccole imprese, per i quali l’utilizzo di Word o Excel è spesso essenziale, si trovano davanti a un aut aut: pagare di più o rinunciare a strumenti essenziali per lavoro e studio; forse una forzatura su cui l’autorità garante della concorrenza dovrebbe buttare un occhio prendendo magari spunto da quanto successo in Australia dove l’Authority ha deciso di ricorrere a vie legali contro l’azienda guidata da Satya Nadella in quanto aveva omesso di palesare ai consumatori la terza via, ossia mantenere il piano esistente al prezzo originale, rinunciando semplicemente all’integrazione di Copilot. Alternativa che per gli abbonati australiani emergeva solo quando gli abbonati avviano concretamente la procedura di cancellazione della prestazione.
Il messaggio tra le righe è chiaro: i colossi tecnologici – da Netflix a Spotify passando per Amazon Prime – dopo aver abituato i consumatori al modello dell’abbonamento, ora spremono il più possibile il loro parco buoi. È la nuova «inflazione digitale», una spirale che rischia di alimentare anche l’indice dei prezzi al consumo, ormai sempre più sensibile ai costi dei servizi online. Un campanello d’allarme su come il potere di mercato di pochi giganti tech stia alimentando una nuova, insidiosa e silenziosa inflazione da monopolio. Non un semplice aggiustamento di listino, ma una sorta di dazio non dichiarato basato sull’egemonia digitale. E alla fine se è vero che l’inflazione energetica si è sgonfiata rispetto a tre anni fa, quella da abbonamento rischia di restare incollata a lungo al portafoglio delle famiglie.
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